LA STORIA DI VICTOR TSOI INCANTA CON L’ESTATE E LA STORIA DEL ROCK IN URSS E FACCIA D’ANGELO VIENE SALVATO DALLA COTTILLARD. GRANDE LA RUSSIA DI SEREBBRENIKOV
Marion Cotillard fa reggere questo fim. Non ci sono dubbi. E’ lei l’interprete nella parte di Marlene. Come è “Faccia d’angelo”? E’ come la mamma chiama Lilli, la sua bambina. L’ha avuta, Marlene, da un rapporto finito male, e che ha creato problemi con gli assistenti sociali perché lei beve troppo, fuma troppo, “draga” troppo, nel senso di una vita troppo promiscua. Talmente tanto che la sera stessa delle nozze che dovrebbero sancire l’inizio di una nuova vita, il neo-marito la becca nelle cantine del ristorante affittato per il ricevimento, mentre se la spassa con uno degli invitati. Il meno che si possa dire è che va tutto all’aria…
Non ci sono dubbi che Marlene ama sua figlia, anche se è quest’ultima a cantarle la sera la ninnananna per farla addormentare: lei è sempre troppo nervosa e spesso troppo “bevuta” e, insomma, ci sta poco con la test. Mentre Lilli è molto più matura rispetto alla sua età, ha cervello, dice di lei, “non sapevo di aver scopato con Einstein”… Un bel giorno di carnevale, dopo l’ennesima notte brava, Marlene non torna a casa, se ne va con il nuovo amore incontrato in un locale notturno, mette la ragazzina in un tassì, promette di tornare, ma in pratica la lascia da sola: le sue amiche che dovrebbero tenerla d’occhio, sono della sua stessa pasta, inaffidabili e quindi la piccola dovrà arrangiarsi per conto proprio. Ha bisogno di calore, Lilli, ma come non lo trova nella casa di colpo vuota, così non lo trova a scuola, dove gelosie e invidie congiurano contro di lei. E’ stata scelta per fare la sirenetta nella recita finale, perché è stato il suo il componimento più bello sul tema, e poi per quel suo viso d’angelo e i lunghi capelli biondo-rame. Ma i bambini, si sa, sono crudeli e non fanno sconti: non ha il padre Lilli, la madre è scomparsa, è troppo silenziosa e “diversa” per non attirarsi l’ostilità infantile.
Viso d’Angelo, Guele d’ange, appunto, di Vanessa Philo, si regge come dicevo per l’interpretazione di Marion Cotillard (Marlene) e della rivelazione Ayline Etaix, bambina che senza essere bella ha un suo fascino misterioso e malinconico. Imbiondita, la Cotillard illumina lo schermo con il fascino fragile di una donna che sente l’avanzare dell’età e tenta sempre e comunque di sfuggire alle responsabilità. Ci dev’essere, pensa e spera, una seconda chance, prima o poi pensa e spera, la ruota della vita girerà per il verso giusto. Albert Lenoir è Julio, la presenza maschile a cui Lilli si legherà una volta rimasta sola, un altro perdente della vita, una volta che, messo al tappeto, non ha saputo più rialzarsi. Ex tuffatore professionista, un trapianto di cuore l’ha relegato a fare da guardiano notturno di un luna park nella cittadina di mare dove tutto il film si svolge. Funzionerà come una sorta di deus ex machina, ma il difetto di Guele d’ange sta proprio nella prevedibilità della storia e nell’eccesso di mélo che l’accompagna. Ma passiamo subito a un altro film che forse merita di essere citato. Poi giudicherete voi. Per me è un capolavoro.
La musica che piu’ amo è il rock. E guarda a caso il rock ancora una volta, almeno finora salva anche un festival. Certe cose pochi le sanno…Il rock nell’Urss sul finire degli anni Settanta era come cercare di suonare in un pianeta morto. Non esistevano i concerti, incidere un album era un sogno proibito, i locali dove esibirsi erano angusti e sottoposti all’autorità, si poteva applaudire, ma stando seduti e senza fare troppo casino, c’era un comitato di censura che controllava i testi…Era un po’ il rock, ma senza il roll, la protesta, ma non la ribellione, l’invettiva antiborghese, ma non anti-sistema.. Al Cremlino c’era ancora Breznev e alla sera i telegiornali elencavano la produzione quotidiana delle tonnellate d’acciaio, dei quintali di grano, la marcia gloriosa e progressiva verso il trionfo del comunismo nel mondo…Di lì a un decennio sarebbe venuto giù tutto, come una diarrea dall’interno di un potere che aveva perso il contatto con la realtà e, soprattutto, non riusciva a dire più nulla alle nuove generazioni. Nate ai tempi del disgelo poststalinista, quest’ultime si ritrovavano a guardare a occidente perché dentro l’oriente c’era il vuoto, l’assenza di prospettive e l’assenza di ideali. E’ anche per questo che quel rock così fragile e underground finiva per riassumere in sé molto di più di quanto, artisticamente
parlando, fosse in grado di esprimere: c’era in esso disperazione e insieme frenesia, tristezza e gusto della sfida, molto individualismo, nessuna velleità sociale.
Leto, L’estate, di Kirill Serenbrennikov, in concorso qui a Cannes 2018, ricostruisce questo clima e questo modo di essere in maniera magistrale, con un bianco e nero che racconta Leningrado meglio di qualsiasi immagine a colori e un linguaggio cinematografico in cui si mischiano animazione grafica, movimenti coreografici, improvvisazioni surrealiste. E’ la storia di Victor Tsoi”, cantante di origine russo-coreana, front band del gruppo Kino, uno che per la Russia sovietica di allora fu qualcosa di simile a Mick Jagger per l’Inghilterra. Morto a nemmeno trent’anni per un incidente di macchina, Tsoi” attraversò gli anni Ottanta come una sorta di missile a propulsione atomica e la sua scomparsa all’indomani della caduta del Muro di Berlino è emblematica nel raccontare come quel rock avesse potuto nascere solo da determinate condizioni, ma non avrebbe però potuto sopravvivergli. Alcuni paragoni nascono spontanei..
Una piccola biografia: Serebrennikov, 48 anni, già a Cannes due anni fa con Il discepolo e a Venezia anni prima con L’adultera, è fra i registi cinematografici e teatrali più interessanti oggi in Russia. Considerato per i suoi film ironici e dissacranti un oppositore di Putin, non è potuto venire al Festival ad accompagnare L’estate, in quanto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver stornato fondi pubblici. La cosa ha fatto scorrere in Francia fiumi d’inchiostro, ma, come ha tenuto a dire il suo avvocato, “la cosa più importante per lui è che ci sia il suo film” . Nel raccontare i primi passi di Tsoi”, la pellicola mette in primo piano il suo incontro con Boris Grebenscikov, che sarà il cantante amico-rivale in grado di intuirne per primo le potenzialità e insieme l’originalità, il delicato rapporto instauratosi fra due musicisti che si stimano, anche se il più geniale sa che l’altro gli è superiore per generosità…L’estate è anche uno di quei film generazionali sulla giovinezza e il malessere di vivere in cui lo spettatore si ritrova indipendentemente dall’età’, nella constatazione di un presente o nel ricordo di un passato. Le canzoni di Tsoi” fanno il resto, con quell’impasto sonoro tipico della lingua russa, dove la dolcezza ha sempre qualcosa di ruvido. L’estate rimanda al titolo di una sua canzone omonima, quando “un giorno sembra durarne due/ la notte sembra durare solo un’ora/ il sole è in un cerchio di birra”, ed è l’estate dei vent’anni, quando si è infelici spesso senza un perché. Ma su questo forse i ragazzi russi avevano le idee più chiare delle nostre. Anzi posso affermalo al novanta per cento.