DA UNA DOCENTE DA HARVARD POSSIAMO RIPERCORRERE LA STORIA DELL’IMPERO BRITANNICO..ILLEGALITA’ LEGALIZZATA , UN FILO ROSSO ILLUSTRA LE PRATICHE NEGATIVE CON CUI L’IMPERO VENNE FONDATO E MANTENUTO
Ripercorriamo cio’ che è accaduto dalla metà del 1700 in avanti quando venne fondato l’impero britannico fino al secondo dopoguerra alla colonizzazione…..“Una storia dell’impero britannico” è il sottotitolo di Un‘eredità di violenza, l’imponente saggio di Caroline Elkins (Einaudi, traduzione di Luigi Giacone, 988 pagine, 48 euro), docente di storia all’università di Harvard e specializzata in tematiche coloniali e post-coloniali. Un suo precedente libro, Imperial Recokoning. The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya gli valse nel 2004 il premio Pulitzer nonché la convocazione, in qualità di esperto, nella causa che nel 2009 vide cinque ottuagenari kenyoti (divenuti in seguito oltre cinquemila) chiedere giustizia per le violenze e i soprusi subiti negli anni Cinquanta, quando il Kenya era ancora una colonia inglese. La causa si concluse nel 2013 con il governo di Londra che riconosceva le sue colpe, il pagamento di 20 milioni di sterline per danni e spese legali e la costruzione a Nairobi di un monumento commemorativo “alle vittime di torture e maltrattamenti durante l’era coloniale”. Caroline Elkins, per dirla in breve, sa di cosa scrive.
L’articolo indeterminativo che introduce sia il titolo sia il sottotitolo, sta a indicare che il campo d’azione in cui il libro si muove è specifico e riguarda ciò che la Elkins definisce “illegalità legalizzata”. In sostanza, nella creazione e poi nel mantenimento di quello che fu l’impero britannico, 700 milioni di sudditi su un quarto della superfice mondiale, la violenza, giuridicamente travestita, non fu l’eccezione, ma la prassi e insieme, come dire, la ideologia a essa sottesa…Dietro il manto dello stato di diritto, del libero mercato, della partecipazione democratica, dello sviluppo in vista di una successiva e finale emancipazione delle popolazioni assoggettate, era la supremazia razziale a tenere banco, unita a una logica di conquista e di dominio. Si tratta in sostanza di un filo rosso che accomuna fra la fine del XIX secolo e la metà di quello successivo le guerre boere, la lotta per l’indipendenza irlandese, le rivolte in India, Iraq e Palestina, Cipro, il Kenya, appunto, e la Malesia, per citare solo quelle che ebbero maggior impatto e risonanza e intorno alle quali ciò che emerge chiaramente è l’incapacità britannica a elaborare una politica che in qualche modo potesse prefigurare e/o indicare un futuro, presa com’era a mantenere uno status quo di volta in volta malamente riadattato a quelle che erano le contingenze del momento. Un caso esemplare è la questione palestinese, dove il piano Balfour del “focolare nazionale” per il popolo ebraico, del 1917, nel giro di un ventennio trasformò quest’ultimo da alleato in nemico e diede il via a una guerriglia antibritannica che per atrocità, massacri, atti di terrorismo, rastrellamenti, rapimenti, torture non ha nulla a che invidiare con quanto oggi abbiamo lì sotto gli occhi.
Vale la pena ricordare che la logica imperiale inglese non è stata, e non è, una prerogativa dei governi conservatori che di volta in volta l’hanno guidata. Fa parte anche di quella dei governi laburisti, sia quando l’impero esisteva, sia quando, con la decolonizzazione, l’impero è venuto meno. Ancora nel 2003, ai tempi della guerra in Iraq, Robert Cooper, il consigliere di Tony Blair in politica estera, se ne poteva uscire con la singolare considerazione che “quando abbiamo a che fare con stati più antiquati, al di fuori del continente postmoderno dell’Europa, dobbiamo tornare ai metodi più rudi di un’epoca precedente: la forza, l’attacco preventivo, l’inganno, tutto ciò è necessario per affrontare coloro che ancora vivono nel mondo ottocentesco di ogni stato per sé. Tra noi rispettiamo la legge, ma quando operiamo nella giungla, dobbiamo usare le leggi della giungla”.
Come osserva la Elkins, “’il nuovo imperialismo liberale’ dei laburisti era una stupefacente ammissione del fallimento della missione civilizzatrice che avrebbe dovuto creare un nuovo mondo moderno. Per far quadrare il cerchio, il ‘nuovo imperialismo liberale’ paragonò il disordine nell’ex impero a ciò che accade ai bambini che vengono fatti camminare troppo presto”. Insomma, conclude la Elkins, “le nazioni nere e di colore di tutto il mondo non si erano ancora evolute completamente”…
Un secolo dopo quello che Rudyard Kipling aveva definito “le barbare guerre della pace”, i madhisti nel Sudan, gli afghani nell’Asia centrale, gli zulu e gli afrikaner in Sudafrica, il pensiero post moderno di Cooper non era avanzato neppure di un giorno, non fosse che intanto era cambiato il mondo e si trovava perciò costretto ad ammettere: “Oggi non ci sono potenze disposte ad assicurarsi l’onere di una colonizzazione, anche se opportunità in tal senso, e forse anche la necessità sono forti come lo erano nel XIX secolo”. Quello che egli suggeriva in alternativa, era l’adesione all’imperialismo informale dell’economia globale, “gestita da un consorzio internazionale con il Fmi e la Banca mondiale” e la creazione di una struttura sovra-imperiale…
Vale la pena ricordare che nel giro di un decennio e poco più, con la Brexit l’Inghilterra sarebbe tornata nel novero “ancora ottocentesco di ogni stato per sé” da Cooper così tanto disprezzato. Quanto a Blair, la guerra all’Iraq segnerà la fine della sua carriera di statista e l’inizio di quella di lobbista.
Quando alla fine del’700, con la Compagnia delle Indie Orientali, l’Inghilterra aveva cominciato il suo apprendistato all’Impero del sub continente, chi ne aveva subito colto gli elementi di pericolosità insiti in un dominio non regolato da freni morali era stato il grande filosofo conservatore Edmund Burke. La giovane età di chi andava a prestare servizio nelle colonie, disse in un memorabile discorso al Parlamento, faceva sì che essi passassero “dalla sfuggente giovinezza a una pericolosa indipendenza, dalla pericolosa indipendenza ad aspettative esagerate, dalle aspettative esagerate a un potere sconfinato. Scolaretti senza precettori, minorenni senza tutori – il mondo è lasciato nelle loro mani, con tutte le sue tentazioni; loro, d’altro canto, sono lasciati nelle mani del mondo, con tutto il potere permesso dal dispotismo”.
Il monito di Burke riecheggia per certi versi nella celebre definizione kiplinghiana delle colonie come “il fardello dell’uomo bianco”, ma l’impero che nell’arco di tempo che separa quei due nomi si era intanto formato, aveva a sua volta spinto l’acceleratore sulla supremazia razziale, coniugandola con un’educazione in cui autorità e disciplina formavano la miscela esplosiva del cosiddetto “effetto morale” della violenza, sperimentato sui banchi di scuola e poi esportato ai quattro angoli dell’impero quasi come una forma di personale risarcimento. Non si andava all’estero per amministrare, ma per comandare e quindi per essere obbediti… Come osservò molti anni dopo Bet Zuri, uno dei leader della resistenza ebraica contro gli inglesi, poi condannato a morte per l’assassinio a sangue freddo del Residente britannico Moyne: “La Gran Bretagna è il paese del dottor Jekill e del signor Hyde. In Inghilterra sono tutti dei dottor Jekyll, ma quando prendono la nave per le colonie diventano tutti dei signori Hyde”.
Il concetto di impero e con esso la sua realizzazione pratica, cominciò a essere messo in discussione con la Prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna non solo usò truppe indigene, ma promise una serie di accomodamenti, in Africa, in India, in Medio Oriente, di cui le popolazioni autoctone avrebbero beneficiato. Ciò mise in discussione l’idea stessa di egemonia bianca e provocò anche un rimbalzo delle istanze nazionali e di autodeterminazione dal Vecchio continente alle colonie che non ne facevano parte. Il bacillo del nazionalismo attecchì anche lì dove nazioni in senso occidentale non esistevano, ma sentimenti di libertà, di indipendenza, di difesa delle proprie tradizioni, usi, costumi erano invece ben presenti.
L’egemonia del “secolo americano” fece il resto, nel senso che da quel primo Novecento bellico emerse un nuovo attore, gli Stati Uniti, nato da una rivoluzione coloniale antinglese e che quindi dell’idea tradizionale dell’impero non aveva alcun rimpianto. Il suo si sarebbe rivelato un imperialismo del tutto diverso, cui nel secondo dopoguerra la componente ideologica dell’anticomunismo avrebbe dato una consistenza geopolitica e insieme militare.
Caroline Elkins si stupisce che ancora pochi anni fa il 60 per cento degli inglesi ritenessero l’impero “qualcosa di cui andare fieri”, ma, come osservò a suo tempo Hannah Arendt, “la leggenda dell’impero britannico ha attratto al suo servizio i migliori figli dell’Inghilterra (…) Senza dubbio, nessuna struttura politica si prestava più dell’impero britannico ad evocare giustificazioni e versioni leggendarie”.