“L’AMORE NEL FUOCO DELLA GUERRA”, L’ULTIMA FATICA DEL FILOSOFO STEFANO ZECCHI. ED. MONDADORI 258 PAGINE

Chi non conosce Stefano Zecchi? Filosofo, editorialista, opinionista, attento al sociale. L’estetica e la bellezza sono i suoi cavalli di battaglia. Ma vediamo l’ultima sua fatica, Da alcuni anni a questa parte Stefano Zecchi sta lavorando a una ricostruzione narrativa di quella che in altri tempi si sarebbe definita “la questione adriatica, Trieste, l’Istria e la Dalmazia raccontate nel quadro storico della Seconda guerra mondiale all’indomani del 1943, quando l’Italia s inabissa politicamente e militarmente e con essa l’italianità di quelle terre. E’ un trittico di romanzi, cominciato con Quando ci batteva forte il cuore, proseguito con Rose bianche a Fiume e che trova ora in L’amore nel fuoco della guerra (Mondadori, 258 pagine, 20 euro) la sua conclusione ideale perché ambientato a Zara, che di quella italianità fu la perla per eccellenza e che proprio per questo venne punita in modo feroce quanto meschino, 54 bombardamenti della Balkan Air Force anglo-americana che la rasero al suolo. Dietro quel diluvio di ferro e di fuoco c’era la volontà titina di estirpare ogni traccia della presenza italiana e, come scriverà pochi anni più tardi Thomas Stearn Eliot nel ricordare altri simili annientamenti di città-capolavori, Dresda, Monaco, Norimberga, quei massacri dall’aria sarebbero nel tempo divenuti una macchia incancellabile sulla buona fede della nazione inglese.
Per inciso, varrà la pena ricordare che quando l’Inghilterra decise di cambiare in corsa il suo alleato jugoslavo, e passare dai monarchici di Mihajlovic ai partigiani comunisti di Tito, alle perplessità anticomuniste di Fitzroy Mac Lean, a rapporto dopo una missione in Jugoslavia svolta proprio per conto di Churchill, quest’ultimo replicò con quel suo soave cinismo che gli era proprio: “Lei nel dopoguerra ha intenzione di stabilirsi in Jugoslavia?” “Certamente no”. “E nemmeno io”.
Zecchi non è uno storico, tantomeno uno storico revisionista, termine divenuto sospetto ai cultori di una sola verità storica, la propria. Non lo è non per incapacità, e nemmeno per disinteresse: più semplicemente ritiene che la quotidianità degli eventi e le reazioni individuali rispetto a essi abbiano una valenza maggiore rispetto ai grandi affreschi e ai grandi interrogativi storici. La gente, sembra dirci, e cioè noi tutti, fa di volta in volta scelte contingenti senza sapere che cosa queste le porteranno e sarà la vita a presentare il conto. A volte si tratta di scelte eroiche, altre di piccole o grandi viltà, il semplice non voler vedere, l’allearsi nel nome del più forte, il chiudere consapevolmente gli occhi, ma le une e le altre sono fatte nella solitudine dell’esistere, senza la rassicurante certezza con cui a anni di distanza lo storico le ricostruirà, già sapendo però come è andata a finire.
In L’amore nel fuoco della guerra, Zecchi parte da una vicenda reale, capitatagli fra le mani nel corso di un incontro fortuito, una delle tante presentazioni dei suoi libri in giro per l’Italia, e insieme fatale, se è vero che “per non farsi cogliere impreparati dal destino, bisogna fare attenzione alle coincidenze che ci presenta”. Così, una cartellina azzurra, con un nome scritto a matita rossa in un angolo, diventa nel corso di una ricerca una persona, una storia e insomma una vita, quella di Valerio Federico G. come da lui stesso raccontata (e da Zecchi rielaborata) nel suo Diario di un musicista disarmato…
Si dice spesso che la vita imita l’arte, ma a volte è il suo esatto contrario. Senza saperlo, senza volerlo, il protagonista di carta dell’Anonimo veneziano di Giuseppe Berto ha qui i tratti carnali di un suo omologo di trent’anni prima: musicista, concertista, piccola gloria locale, padre separato, in attesa di quello che pensa sarà l’ultimo incontro con la moglie. Solo che mentre Berto metteva in campo il tumore mortale a sancire una riunione impossibile quanto desiderata, qui c’è lo scarto dovuto non all’imponderabile, ma alle scelte a cui la vita ti mette di fronte: “Qualche giorno ancora e mi verranno a prendere per impiccarmi”…
In quella Zara che dopo l’otto settembre del 1943 vede gli ultimi fuochi di un’italianità ormai allo sbando, il povero “musicista disarmato” ha fatto quello che l’amore per la sua città, per quelle terre, per i suoi ideali nazionali e insieme cosmopoliti, gli ha dettato: ha preso posizione, si è esposto, ha creduto di essere utile, si è ritrovato invischiato in un gioco più grande di lui, si è reso conto, alla fine, di non avere più tempo e insieme di non volersene andare, di non voler fuggire, perché sa che sarebbe soltanto un altro modo di morire.
C’è nel romanzo un andare avanti e indietro nel tempo strettamente legato a quelle “coincidenze” cui Zecchi presta attenzione proprio perché il destino si sveli e non si limiti a recitare la parte del caso. Una è il nome Antonio Varisco, quel nome scritto in rosso sulla cartellina azzurra, un nome familiare alla sua memoria e però come perso nella nebbia del nostro ieri. Rimanda a un giovane diciassettenne di Zara in quel fine ottobre del 1944 in cui le truppe di Tito entrarono nella città distrutta. Quel giorno un tenente dei carabinieri, Ignazio Terranova, salì sul campanile rimasto miracolosamente intatto della cattedrale di Santa Anastasia, e dispiegò al vento il grande tricolore che teneva sotto la camicia. La bandiera venne subito ammainata e poi bruciata dai titini, l’autore del gesto fucilato sul posto, ma quel gesto si impresse così profondamente sul ragazzo Varisco che, una volta approdato da esule in fuga in Italia, fece domanda per entrare nell’Arma. Negli anni ne percorse i gradi fino a quello di colonnello, nel 1979 farà la stessa fine del suo eroe di gioventù, ammazzato in un agguato dai brigatisti rossi italiani.
In un gioco di specchi, a volte deformanti, Zecchi dipana in questo romanzo tanti piccoli appuntamenti con il destino a lungo rimandati proprio per non doversi guardare in faccia e vedere gli errori e a volte gli orrori nascosti dietro la coazione a vivere. La figlia di Federico G. cresciuta nel culto paterno, pagherà con la vita il desiderio di dare un nome agli assassini del padre, la compagna “croata italiana” dello sfortunato musicista scoprirà tropo tardi di essere stata fra le involontarie artefici della sua morte…
Su tutto aleggia il fantasma di Zara, che Zecchi delicatamente ricostruisce nella topografia, nel clima, negli odori e nei sapori, Zara la città martoriata e insieme la città dimenticata, onorata soltanto vent’anni fa di una medaglia d’oro al valor militare rimata però ancora e sempre lettera morta per viltà politiche, complicità ideologiche, furbizie diplomatiche. E’ il dramma dei sacrifici inutili e tuttavia necessari, se si vuole che la verità si mantenga nella sua infrangibile bellezza.Come dicevamo all’inizio si parla di “bellezza nonostante tutto….


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