L’EPICA DEL MARE … L’ENEIDE DEL PORTOGALLO

Da Vasco de Gama fino all’Impero Portoghese d’Oltremare nel poema Elusiadi di Camoes i suoi connazionali si cullarono nell’idea di un passato illustre mentre il Portogallo sprofondava nella decadenza. Scrisse Herman Melville a proposito del portoghese Camo^es, l’autore di I Lusiadi, che “il coltello del destino” aveva “squarciato le corde della sua lira”. Il suo poema, aggiunse, era ” l’epica del mare” e detto dall’autore di Moby Dick si trattava non solo di un riconoscimento, ma dell’attestazione di una filiazione esistenziale-letteraria. Nessuno dei due aveva avuto, in vita, la fama che avrebbe meritato, entrambi avrebbero finito con l‘incarnare anche una sorta di epopea nazionale, lo spirito e il carattere di un popolo.

Camo^es era morto nel giugno del 1580, all’ospedale dei poveri di Lisbona, vittima di una pestilenza: una morte nell’anonimato, l’immagine stessa dell’artista dimenticato. Era lo stesso anno in cui il Portogallo era stato annesso alla Spagna, un’annessione vissuta come un’umiliazione che sarebbe durata più di mezzo secolo. Così quel suo poema nel tempo si trasformò nella rivendicazione di una passata grandezza, l’emblema di una superiorità e di una diversità rispetto agli spagnoli e ala loro momentanea, si pensava supremazia. Dopo però ci sarebbe stata quella inglese, poi quella francese…I Lusiadi raccontava insomma ciò che il mondo doveva al Portogallo e raccontava ai portoghesi ciò che erano stati nella speranza di tornare un giorno a esserlo.

Dietro a quella fama straordinaria, scrive però Edward Wilson-Lee nel suo Una storia d’acqua (Bollati Boringhieri, traduzione di Susanna Bourlot, 279 pagine, 28 euro), c’era tuttavia qualcos’altro, vale a dire la difesa “di una certa idea della storia”, non tanto o soltanto nazionale, ma continentale, europea. Schematizzando al massimo, a partire da quel XVII secolo in cui I Lusiadi si afferma come “il più perfetto dei poemi epici”, la crescita dell’imperialismo coloniale va di pari passo con la creazione di un modello culturale, politico e ideologico eurocentrico che si vuole filiazione diretta dell’Impero romano e che non ha alcun debito con un Oriente genericamente inteso e contrapposto a un Occidente che si vuole vittorioso e universale. “La cultura e il pensiero dei popoli non europei -scrive Wilson-Lee- se e quando venivano considerati  erano appannaggio di specialisti eclettici, tenuti a distanza di sicurezza dalle culture europee canoniche tramite lo sviluppo di istituzioni che studiavano quelle civiltà sotto l’etichetta di ‘orientalismo’ e (più tardi) di ‘antropologia’. Nell’offuscare quegli incontri con il resto del mondo, l’Europa rinunciò anche a modelli di vita che sarebbe giunto a concettualizzare secoli dopo”.

Sul perché si sia verificato il cambiamento di un paradigma culturale, ovvero il passaggio da un possibile mondo globale a un mondo appunto eurocentrico che quella globalità interpreta i una logica coloniale, è incentrata l’analisi di Wilson-Lee che intelligentemente si serve di due figure fra loro agli antipodi eppure nate e cresciute negli stessi anni e nella stessa nazione, il già citato Camo^ es e il filosofo e archivista di Stato Damia^o  de Gòis. Prima di vederle più a fondo va però messa in risalto una realtà come quella portoghese, di cui ancora oggi si tende a sottolineare una sorta di perifericità europea ma che, ancora per buona metà del Cinquecento, fu il tramite principale tra il Vecchio continente e il resto del mondo. La presenza portoghese si estendeva infatti dall’Asia meridionale alle coste dell’Africa, a Macao, il Siam, la Malacca, il Bengala, il Gujarat, la Persia, l’isola di Hormuz, l’Etiopia, la costa Swaili, il Madagascar, il Mozambico, la penisola del Capo, il Benin, e il Maghreb, oltre a Capo Verde, le Canarie, Madeira e le Azzorre e senza dimenticare il Brasile…

L’elenco dà le vertigini e le dà tanto più se si considera che “date le distanze e le dimensioni ed eterogeneità del flusso di informazioni possibili da quegli scambi, la memoria e la conoscenza che ne derivavano era “cartacea. Era un sapere che poteva essere trasmesso e conservato solo in forma scritta”. Per certi versi, osserva Wilson-Lee, “il fruscio delle carte determinava la forma del mondo”, nel senso che ciò che veniva inviato, trattenuto e divulgato negli archivi li trasformava da luoghi di custodia in strumenti di potere.

E’ un dato di fatto che l’apertura dei canali mercantili portò all’epoca anche “una marea di informazioni sugli dèi, gli eroi, le vite e i pensieri di persone che vivevano altrove, e per un breve momento sembrò che tutto il mondo scorresse all’unisono. Sappiamo che le cose andarono diversamente: gli scolari vittoriani non impararono il cinese e l’arabo, la e storie di Rama e Sita non circolarono fra i monelli di Monaco, i politici di Madrid non presero a modello le regine del Madagascar. La storia di quel periodo è anche la storia di un momento in cui saremmo potuti diventare globali, ma non l’abbiamo fatto e ci pone davanti al mistero del perché sia così”.

Il pregio di Una storia d’acqua è in fondo anche il suo difetto. Utilizzando le biografie di Camo^es e di de Gòis, l’autore costruisce un affasciante contrasto fra la curiosità e l’apertura mentale da un lato e la diffidenza dall’altro o, se si vuole, fra lo spirito cosmopolita enciclopedico e l’individualismo artistico con in più il la sua voglia e il suo istinto di rivalsa personale e nazionale. Due modi di essere e di esistere trasformati in fondo in archetipi, funzionali certo alla narrazione e tuttavia riduttivi rispetto alla realtà. Senza contare che l’imperialismo europeo entra allora in contatto e in contrasto anche con imperialismi altrui, quello arabo-musulmano, quello cinese e insomma la globalizzazione non è così pacifica e/o a senso unico si vorrebbe far credere.

Dei due “eroi” di questo libro, de Gòis è il meno noto. Amico di Erasmo da Rotterdam, spirito tollerante e aperto al nuovo, primo traduttore portoghese della Bibbia, viaggiatore nel nord Europa, amante della pittura di Bosch e della polifonia, processato dall’Inquisizione in quanto sospetto di eresia e giudicato colpevole, morto in circostanze misteriose, è una figura esemplare del suo tempo e per nulla marginale. Venne utilizzato per cercare di appianare i contrati fra riformisti luterani e cattolici romani, fu responsabile dell’Archivio Reale nonché incaricato di scrivere le cronache del regno di Dom Manuel, coincidenti con i viaggi di de Gama, l’arrivo di Pedro Alvares in Brasile, la conquista del Mozambico e di Goa, in pratica l’immensa crescita del Portogallo in termini di ricchezza e di status. Era una cronaca commissionatagli dal figlio stesso del re, il cardinale-infante Henrique, reggente del regno per il pronipote Sebastiao ancora minorenne, nonché capo dell’Inquisizione. Per quanto Wilson-Lee definisca quel’ incarico “di poco prestigio”, il fatto di essere al tempo stesso l’archivista per eccellenza del regno, ovvero il divulgatore “dei documenti che erano stati autorizzati dal re a circolare”, e il custode “dei misteri a cui nemmeno gli scrivani dell’archivio potevano accedere” non ne fa un personaggio secondario. Più che essere vittima della sua passione enciclopedica, lo fu di vecchie ruggini religiose che risalivano a un quarto di secolo prima.

Camo^es ha, se si vuole, un fascino più umano, non essendoci in lui nulla di libresco. Era stato un frequentatore di bordelli e di prigioni, un vagabondo e uno spaccone, era orbo di un occhio, perennemente in cerca di soldi e di donne. Era arrivato sino in Giappone, forte della carica di Provedor dos bens de defuntos, l’amministratore dei beni di quei portoghesi diretti oltremare verso l’Estremo Oriente e rimasti vittime di quei viaggi. Era una carica importante nonché redditizia, ma riuscirà a perdere anche questa, accusato di frode e nuovamente sbattuto in carcere. Uscito fortunosamente di galera e sopravvissuto a un naufragio, nel Mar Cinese Meridionale, durante il viaggio di ritorno a Macao e poi di nuovo accusato di illeciti e ripartito alla volta del Mozambico è qui che mette fine a I Lusiadi, l’opera che in tutte le sue peregrinazioni si era sempre portato dietro. Il suo poema è l’esaltazione della sua nazione, un viaggio attraverso “mari mai da prima navigati”, aprendo “quei marosi/che mai generazione alcuna aprì”: L’Europa insomma è il centro di cui però è il Portogallo il fiore più pregiato e il frutto eletto e tutto il resto del mondo non è altro che un territorio barbaro da colonizzare…

Camo^es tornerà a Lisbona nell’arile del 1570 e un anno dopo gli verrà accordato l’imprimatur per stampare il suo capolavoro. E’ lo stesso anno in cui l’Inquisizione fa arrestare Damiao de Gòis e ne confisca i libri…Moriranno a pochi anni di distanza l’uno dall’altro e il merito di Edward Wilson-Lee è di averli riportati in vita con le loro illusioni, le loro lotte per sopravvivere in un’epoca esaltante e pericolosa, fedeli a ciò che credevano, sconfitti eppure indomiti. Ancora oggi il Portogallo viene vissuto come una estrema appendice dellEuropa continentale e si tende a dimenticare quanto invece al tempo del suo splendore aveva influenzato l’intero continente attraverso esploirazioni, traffici, scambi di merci…


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