ROBESPIERRE…L’AMICO DEL POPOLO. W LA RIVOLUZIONE? E SAINT JUST COME LO DEFINIAMO?

Chi non ha amato questo periodo della storia..lo si studiava con passione, era stimolante perche’ era politica, libertà, giustizia….Tanti i libri che raccontavano le vite dei singoli partecipanti e dei fondatori della Rivoluzione Francesiìe come quelli dell Enciclopedia…Il nove termidoro dell’anno II del calendario rivoluzionario, ovvero il 27 lugli 1794, è noto agli storici e agli appassionati di storia come il giorno in cui Robespierre perse d’improvviso il suo potere e, nel giro di ventiquattr’ore, anche la sua testa. Gliela tagliò la lama della ghigliottina azionata dal boia Sanson, lo stesso che prima di lui aveva decapitato Luigi XVI e prima del re gli avversari della monarchia finché la monarchia era durata…Nata per alleviare le sofferenze degli squartamenti e dei supplizi, la ghigliottina, è il caso di dire, non guardò mai in faccia a nessuno, ma rispetto al suo utilizzo al tempo dell’Ancien Régime aristocratico, la democrazia nata con la Rivoluzione francese ne fece un uso ancor più egalitario: ricchi e poveri, nobili e borghesi, uomini e donne, giovani e vecchi, colpevoli e innocenti. I “nemici del popolo” nel cui nome venivano messi a morte, erano di fatto più numerosi di quelli semplicemente contrari a un’istituzione, regno o repubblica che fosse, e fra di essi c’era appunto il popolo in quanto tale.

Robespierre si era sempre considerato “l’amico del popolo”, ma rispetto a Jean-Paul Marat, che di quell’amicizia si era fatto l’aedo nonché il direttore del giornale da lui fondato con quel titolo, aveva spinto la sua ambizione fino all’idea di esserne l‘incarnazione, se non lo spirito. Era ovviamente un’astrazione, perché del popolo Robespierre ignorava tutto: non lo frequentava, non ne conosceva né i vizi né le passioni. La stessa Parigi, del resto, gli era ignota, eccezion fatta per le poche centinaia di metri che dalla sua abitazione in rue Saint-Honoré lo portavano alla sala della Convenzione o al Club dei Giacobini. Viveva nel culto del popolo e ne era l‘officiante: non sapeva nulla però dei fedeli che ne facevano parte e lo rendevano possibile.

L’ascesa, il trionfo e la caduta di Robespierre restano uno dei tanti enigmi della Rivoluzione francese. C’era gente più fanatica di lui e anche più ambiziosa e ridurre il suo nome e la sua azione al Terrore, come a lungo venne fatto, storicamente ormai non ha più senso. Gli va anche dato atto che quell’altro soprannome, “L’Incorruttibile”, di cui in vita si fece vanto, aveva una sua ragion d’essere, anche se in politica i “puri di cuore” sono spesso più un danno che una risorsa. La mole dei suoi iscritti è immensa, ma per l  più illeggibile: l’oratore era meglio dello scrittore e senza quella voce, i toni, la mimica, il clima la tensione di un’epoca, resta la retorica, ma viene meno  il potere suggestionante della parola.

A cercare se non di risolvere l’enigma, almeno di renderlo il più comprensibile possibile, ci pensa ora questo poderoso saggio di uno storico inglese, Colin Jones, con una radicale cambio di prospettiva. Il suo La caduta di Robespierre (traduzione di Alessandra Manzi, 678 pagine, 38 euro) ha infatti come sottotitolo “Ventiquattr’ore  nella Parigi della Rivoluzione” ed è una sorta di tuffo nel passato andando a verificare, ora per ora, se non minuto per minuto, che cosa quel giorno accadde, ma non tanto o non solo nelle cosiddette stanze o aule del potere, quelle del Comitato di Salute Pubblica o della Convenzione, dei tribunali o delle stazioni di polizia, delle quarantotto sezioni in cui allora si divideva la capitale della Francia, ma anche nel cuore e nelle menti di chi in quell’arco di tempo fu a volte protagonista, altre testimone, se non semplice figurante, sempre e comunque più teso a rincorrere gli avvenimenti che a governarli, visto che fra causa e effetto non c’era un’unica conseguente logica, ma una serie pressoché infinita di opzioni. Come osservò un geniale cronista nonché analista dell’epoca, Louis-Sébastien Mercier, nelle cosiddette crisi rivoluzionarie, “ci sono, in generale, molti aspetti che stupiscono l’osservatore. Quasi tutti non solo risultano imprevedibili, ma rientrano nella categoria delle cose che nessun uomo avveduto potrebbe ritenere possibile. Osservate da vicino, le cose appaiono ben diverse da come le si giudica da lontano”.

Sulla scorta di Mercier, Colin Jones rovescia insomma l’ottica classica con cui la storia si costruisce ex post, ovvero sapendo come il racconto andrà a finire e trovando quindi una coerenza a ciò che coerente non era. In quelle ventiquattro ore, scrive Jones, si può “cogliere al meglio lo sviluppo degli avvenimenti anche seguendo le voci, i pettegolezzi, le emozioni, gli ordini e i decreti, gli uomini e le donne, i cavalli, le pistole, le picche e i cannoni, mentre si muovevano all’interno della città. Dal più agiato al più umile degli abitanti, i parigini cercarono di leggere e di comprendere quanto stava accadendo per decidersi alla migliore forma d’intervento. Come dovevano agire? E per chi? Mobilitarsi o non mobilitarsi? Stringersi forse attorno a Robespierre e alla Comune (ossia il Governo municipale)? Oppure sostenere la Convenzione nazionale?”.

Naturalmente, nella ricostruzione operata da Jones, molte pezze d’appoggio, memoriali, commissioni d’inchiesta, testimonianze, dichiarazioni, sono anch’esse il frutto del dopo, quando cioè la tendenza comune è quella di voler apparire non solo come se si fosse capito tutto, ma ci si fosse anche comportati nel modo più nobile, più coraggioso, più adamantino. Ma incrociando fra loro quei documenti e ripescando altresì tutti i dettagli puntualmente registrati sul momento, ordini, contrordini, parole d’ordine, segnalazioni e proclami, rapporti e resoconti di giornata il quadro che ne vien fuori è quello di una narrazione, osserva ancora Jones, “che sembra più grande della vita reale. Il nove termidoro fu un giorno in cui i fatti si dimostrarono se non più strani della finzione, certamente altrettanto avvincenti e sorprendenti”.

Il primo elemento che salta all’occhio è che non ci fu nessun complotto per far fuori Robespierre. Tallien, il deputato che con il suo attacco provocò la valanga successiva, aveva un seguito personale insignificante dentro la Convenzione, e il suo intervento fu talmente estemporaneo che sul momento oltre a spiazzare Robespierre spiazzò la convenzione stessa, ossia i 749membri che la componevano. Allo stesso modo, non c’era nessuna cospirazione ordita dallo stesso Robespierre per trasformarsi in “dittatore”. Non solo non aveva i numeri per epurare dall’interno, ma, come spiega Jones nel constatare “lo stato di confusione in cui precipitò quel giorno”, nonché “la disordinata insurrezione della Comune” che a esso fece seguito, “non ci fu alcuna organizzazione congiunta e neppure una qualche concertazione da Robespierre promossa o dai suoi sodali. La sorpresa, lo stupore e la costernazione che le loro azioni provocarono nelle assemblee di sezione  e al Club dei Giacobini confermano che né Robespierre né i suoi sostenitori avevano lavorato tra la gente di Parigi per prepararla quel giorno a una sorta di colpo di Stato. I ‘cospiratori’ come si è visto avrebbero per la verità continuato a improvvisare per l‘intera giornata”.

Non c’era nemmeno, infine, quella “cospirazione straniera”, una sorta di “controrivoluzione”, divenuta per Robespierre una sorta di ossessione, ma che in realtà non era altro se non il volere una “repubblica della virtù” in contrapposizione “agli uomini perversi, agli uomini corrotti” che le impedivano di farla passare dalla teoria alla pratica…

Termidoro contribuì a mettere in chiaro alcune cose. La prima è che quando dalle parole si passa ai fatti, quando insomma il gioco si fa duro, sono i duri a scendere in campo, gli uomini d’azione, nella fattispecie. Non ci si riferisce ai violenti, agli esaltati, agli esagitati. Quest’ultimi, purtroppo per Robespierre, stavano con lui in quella che era la Comune di Parigi, dal comandante della Guardia nazionale, Henriot, ubriacone inveterato nonché stupido cialtrone, al sindaco Lescot, incapace di gestire una situazione insurrezionale. Sull’altro fronte spiccò invece Barras, che sarà anche stato la sentina di ogni turpitudine, come comunemente veniva definito, ma era un ufficiale di carriera, aveva valorosamente combattuto, era stato l’artefice della conquista di Tolone.

La seconda, e la cosa vale per Robespierre come per Saint-Just e più in generale un po’ per tutte quelle persone che credevano in ciò che dicevano, la Rivoluzione, il Popolo, la Francia erano concetti seri, non parole in libertà. L’idea di tradire un mandato, di essere considerati “fuorilegge”, il sospetto che li si potesse tacciare di ambizioni di potere, di smanie dittatoriali, li paralizzava. Nel momento in cui dalla Comune si decide di agire militarmente contro la Convenzione, ritenuta ormai “una manciata di cospiratori”, e però in nome della Convenzione stessa di cui ci si ritiene gli unici membri legittimi, è proprio Robespierre a rinculare: l’appello all’esercito è oltretutto l’esatto contrario di quanto ha sempre sostenuto. “La mia opinione è che dovremo scrivere in nome del Popolo” fa sapere e in questo nominalismo legalitario, nell’idea che non bisogna prendere prima il potere e fabbricare poi la legittimità dello stesso, è presente il terribile fascino della politica come puro atto di fede. Un libro questo che si puo’ benissimo abbinare a quello scritto da Stenio Solinas sempre per Neri Pozza su Saint Just.


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