E’ SEMPRE MEGLIO FARE “I CONTI CON L’OSTE”

I CONTI CON LOSTE9788806243500_0_0_626_75Tutto è incominciato con Master Chef che ha “irretito” una intera generazione di giovani che non volendo lavorare in un ufficio senza vedere il sole o farei medici o gli avvocati, ha deciso di darsi il “food”- In principio era il ristorante stellato, i grandi miti come Duchasse, Cracco, Oldani, La Mantia, Bartolini, Cannavacciuolo, Barbierieri, Bottura…Il fenomeno dei cosiddetti “cuochi in tv” mi ha sempre incuriosito (mai tanto quanto i miei figli o meglio in particolar modo il maschio che ha poi lasciò l’università e andò in Nuova Zelanda un anno e in seguito freuentò un’ottima scuola di cucina a Milano che lo porto’ a buone conquiste ma…come l’eroe del racconto del libro che vi presento..il pensiero sta cambiando), anche se non ho mai visto una puntata delle tante trasmissioni sul tema,dagli chef stellati a quelli per camionisti passando per i fornelli al femminile dove c’è (quasi) sempre una bella ragazza per la quale gli utensili da cucina sono armi di distruzione di massa. Appartengo a una generazione che ha fatto in tempo a vedere sul piccolo schermo Mario Soldati andare in cerca di cibi genuini, aveva nella propria libreria i libri gastronomici di Paolo Monelli e come vangelo per stroncare ogni eresia quanto alla giusta ricetta il Talismano della felicità di Ada Boni, e quindi faccio parte di un’Italia che non esiste più, se non nel ricordo. Era anche un’Italia dove i cuochi, gli chef, appunto, erano francesi, così come il concetto stesso di restaurant e qui il discorso rischia di farsi complicato. Per dirla semplicemente, era oltralpe che si inseguiva l’invenzione, lo stupore, un canone gastronomico a sé, mentre da noi, nel tornare da un pranzo o una cena in un locale, nel migliore dei casi si diceva che avevamo mangiato bene come a casa…Per inciso, i francesi, nelle loro case, mangiavano, mangiano, malissimo. Carino però il film francese  “A cena con amici”…ma anche “La grande abbuffata”..e “Cous-cous”..non male.

Da allora, naturalmente, è cambiato tutto, gli osti si sono trasformati in chef e poi, per la teoria dell’eterno ritorno, lo chef si è riscoperto oste, con tutte le variazioni sul tema. Ciò che rimane difficile da spiegare è perché un mestiere comunque faticoso, con un cursus honorum malpagato e spesso frustrante quanto a rapporti umani (mediamente i grandi chef sono narcisisti e impietosi, l’ambiente di lavoro è asfittico e iper-competitivo), con rischi economici non indifferenti per chi, non provenendo da tradizioni familiari nel settore, aspira a mettersi in proprio, sia così gettonato fra le nuove generazioni e proprio in quella che una volta si sarebbe definita la media borghesia. Perché, insomma, il figlio di un architetto, di un medico, di un professore, se ne esca un giorno a tavola, mentre il genitore sta inforcando lo spaghetto, con un “Papà, mamma voglio fare il cuoco”…

Una risposta interessante la dà I conti con l’oste (Einaudi, pag. 173, 18,50 euro), di Tommaso Melilli, classe 1990, un trentenne, dunque, uno che a vent’anni va a Parigi a studiare letteratura, ma qualche anno dopo si ritrova chef in un bistrot…Scritto in un italiano pulito quanto sicuro, mai sciatto, mai inquinato da quel linguaggio, quasi uno slang che usano i giovani e gli aspiranti eterni giovani, I conti con l’oste è ovviamente un racconto di formazione, ma è anche per certi versi una sorta di autobiografia della nazione da giovane, desideri e speranze, rapporto con il proprio passato storico, volontà di cambiamento e insieme di radicamento.

Gli amanti della cucina e, più in generale, del cibo vi troveranno di che rimanere soddisfatti, ricetti e indirizzi, segreti del mestiere e descrizioni d’ambiente, ma del libro di Melilli quello che qui più interessa è altro e sta nel riappropriarsi attraverso la cucina di un’identità nazionale sbiadita oppure dimenticata. “Nella storia dell’alta cucina degli ultimi vent’anni c’è stata Parigi, che ha inventato un nuovo modo frugale ed elegante di mangiare bene; c’è stata Copenaghen, che ha insegnato a tutti i cuochi del mondo che intorno a te c’è sempre qualcosa di buono da raccogliere (mio figli mi parlava di un irraggiungibile ristorante stellato credo, Noma proprio nella capitale danese); e poi c’è Milano, che si è ingozzata di sushi per vent’anni”. Dal punto di vista gastronomico, Milano è sempre sembrata a Melilli “una città molto insipida, troppo impegnata per preoccuparsi di mangiare. Una città troppo ansiosa di apparire una vera grande città , tutta presa a ricordare la sua differenza al resto del paese che la circonda, e quindi fatalmente incapace del supremo menefreghismo che caratterizza le vere grandi città”.

Cremonese di nascita, nella sua giovinezza Melilli non ha mai passato nella “capitale morale” più di tre giorni di fila: “Continuavo a vedere decine e decine di trattorie toscane gestite da famiglie palesemente bergamasche o calabresi, e io mi annoiavo moltissimo”.

Poi, cinque anni fa, la foto di un piatto, servito in uno sconosciuto ristorante milanese che rivendicava di essere una trattoria, gli provoca “la stessa sensazione che si prova quando hai infilato il coltello in un’ostrica nel punto giusto e quando ruoti finalmente lei si apre, e fa tac”. Il piatto in questione è un vitello tonnato e per quanto “non un singolo ingrediente non conforme al rigido canone familiare del vitello tonnato: nulla di esotico, nulla di eretico”, è come rivedere un compagno di liceo che nel ricordo era timido, curvo, brufoloso e trovarlo invece “con la schiena dritta, la barba curata, e capire subito che ora è felice e ha trovato la sua strada nella vita. Non te lo saresti mai immaginato così, ma non c’è dubbio: è lui”.

Riflettiamo: il recupero del passato non è nostalgia, che è un sentimento nobile, ma può rivelarsi un sentimento sterile. Scrive Melilli che “negli anni Sessanta, soprattutto in Francia, la nostra cultura chiedeva ai ristoranti di darci del cibo che non somigliasse a del cibo”, un qualcosa che all’inizio di questo articolo l’ho  anche sottolineato, avendolo peraltro vissuto di persona certe vicende. Ma Melilli ha ragione nel dire che quella scelta era “il grido di gioia di un immaginario collettivo che, per la prima volta da secoli, era finalmente al riparo dal rischio di morire di fame”. Ciò che invece è venuto dopo è stato “un cibo in grado di darci delle cose che sentivamo di non avere più”. Melilli appartiene infatti alla generazione di un’Italia dove gli orti erano virtualmente scomparsi e il cosiddetto agriturismo, o la cucina a chilometro zero viene da lì, così come la cucina nordica, “che ha inventato una natura che nessuno sospettava”. Questo spiega perché in quella logica dell’eterno ritorno da noi citata all’inizio, anche il giovane Melilli si accorga all’improvviso che “vogliamo del cibo che sia cucinato come a casa, che sappia di casa, che abbia il sapore di una casa ideale e perfetta, la migliore di tutte le case possibili: con tanta verdura, delle curiose frattaglie, tanta pasta e magari qualcuno che ci capisce e che ci vuole bene. E ho paura che sia proprio perché, in fondo, sappiamo che quella casa non ce l’abbiamo più”.

Sulla scorta di Eric Hobsbawm, Melilli sa benissimo che la tradizione può essere un’invenzione, come il kilt con cui gli scozzesi celebrano un’epica nazionale in cui ciò che non c’era era proprio il kilt… Ma è  interessante come un puro frutto della cosiddetta generazione Erasmus, cresciuto con il trip della globalizzazione e del senza frontiere, vissuto sufficientemente all’estero, la Francia nel suo caso, da poterne padroneggiare la lingua scritta,  si accorga a un certo punto di quanto e come la propria diversità, tanto etnica quanto culturale, sia anche una visione del mondo, rimandi  ad abitudini, colori, odori, sapori che si sono sedimentati attraverso ricordi, testimonianze, costumi, miraggi, persino. Come l’arte, o la letteratura, anche la cucina ha insomma un suo imprinting, si interroga su cosa siamo e cosa vogliamo, si confronta e si mette in gioco con successo se ha la consapevole fierezza di ciò che rappresenta. Altrimenti diventa scimmiottatura, ha a che fare on la sindrome del colonizzato, il melting pot di chi cerca un’identità qualsiasi al mercato mondiale delle occasioni. “Con tutta la buona volontà, non riesco a rimpiangere le spume di liquerizia: questa cucina che ho tanta voglia di fare e di raccontare è piena di passato”. Vi ricordate Depardieu o Michael Cane ? tre generazioni prima dei nostri rampolli…anche loro amavano il cibo e investire in un ristorante. A volte per scoprire chi sei veramente, devi tornare a casa e ogni rivoluzione è un consapevole ritorno all’ordine.


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