SI RIPARLA DI DEGAS….SONO UN CAVALLO DA CORSA..CORRO PER I TORNEI PIU’ PRESTIGIOSI MA MI ACCONTENTO DI..ODIO I GIORNALISTI

Grazie ad Adelfi si riparla di Degas con la traduzione di Tommaso Pezzato e a cura di Jean Pierre Halévy, di Daniel Halévy. Non c’è che da ammirarlo a cominciare da una sua convinzione. Odiava i giornalisti, Degas. In generale, i critici in particolare. “E’ gente che vi tira giù dal letto, vi strappa la camicia, vi sbatte sulla strada e, se vi lamentate, vi dice: ‘Voi appartenete al pubblico’ ”. Naturalmente, odiava anche il pubblico, nel senso della gente, delle mode, del consenso: “Penso solo che si debba lavorare per pochi. Gli altri non contano niente”. L’idea che il direttore di un museo decidesse di esporre un suo quadro lo rendeva furioso: “Pensano: Degas, ecco una pedina che ho sempre trascurato. E’ ora di muoverla in una casella. Io non sono una pedina e non desidero essere mosso. Non avrà nessun quadro mio”. L’idea che fosse la quotazione sul mercato a fare l’artista lo faceva inorridire: “Sono un cavallo da corsa. Corro i gran premi più prestigiosi, ma mi accontento della mia razione d’avena”.
Nato nel 1834, Degas era cresciuto sotto il sole ingannatore di Napoleone III, Napoleone il piccolo per distinguerlo dall’ombra gigantesca di chi lo aveva preceduto. Aveva vent’anni quando le luci dell’Opéra e dei grandi Boulevards gli avevano raccontato lo splendore borghese travestito da nuova dignità imperiale, quaranta quando la sconfitta di Sedan e la Comune di Parigi avevano sancito la fine di quell’impero di cartapesta. Durante l’assedio della capitale, le fredde notti passate a fare da sentinella si erano rivelate fatali per i suo occhi. Edmond Gouncourt, che lo conobbe pochi anni dopo, nel 1874, ne scrisse sul suo Diario con la solita acutezza tinta di stupidità. “Ieri ho passato la giornata nell’atelier di un bizzarro pittore, di nome Degas. Dopo molti tentativi, prove, puntate in varie direzioni, si è invaghito del moderno; e nel moderno ha gettato il suo sguardo su lavandaie e ballerine (…). Un originale ragazzo, questo Degas, un gracile, nevrotico, oftalmico a tal punto da temere di perdere la vista (…). Fino ad oggi, l’uomo che meglio, nel ritrarre la vita moderna, ne cattura anche l’anima. Ma realizzerà mai qualcosa di completo? Ne dubito”.
“Letterastri!”. Pare di sentire la replica di Degas a giudizi del genere. “L’arte è un mistero. Che mi lascino in pace”. A chi aveva definito la sua pittura, e quella di Monet, Manet, Renoir, rivoluzionaria, aveva replicato: “Noi siamo la tradizione, su questo non si insisterà mai abbastanza. Forse Tiziano sarebbe felice di scambiare quattro chiacchiere con me, prima di salire sulla sua gondola”.
Ciò che Edmond Goncourt aveva superficialmente definito “l’invaghimento per il moderno”, un punto d’arrivo dopo “molti tentativi”, è invece il nodo centrale di Degas parla (Adelphi, traduzione di Tommaso Pezzato, a cura di Jean-Pierre Halévy, 229 pagine, 20 euro), di Daniel Halévy. Nato nel 1872 in una Francia ormai repubblicana, Daniel, intellettuale di spicco fra le due guerre, è ancora un bambino quando Degas frequenta regolarmente, come fosse uno di famiglia, la casa dei suoi genitori: è stato compagno di scuola del padre, la madre era la cugina di uno dei suoi più cari amici, Alfred Niaudet. Quando a sedici anni comincia a tenere un diario, Degas già non ci vede quasi più, una sorta di re Lear della pittura, ancora capace di orientarsi nella notte da solo, ma sempre meno in grado di tracciare una linea sul foglio: “La lotta del disegnatore e del pittore con l’ombra durò una ventina d’anni: all’inizio del secolo l’ombra aveva ormai sconfitto l’artista”.
Basato su diari, ricordi, saggi e pubblicato negli anni Sessanta del Novecento da un Halévy quasi novantenne, Degas parla è la storia appassionata e struggente di una catastrofe inconfessata, dove la cecità, la fine di un’epoca, l’intransigenza e la solitudine contribuiscono a un radicamento artistico che si pone come agli antipodi di ciò che c’era stato prima. La domanda a cui Halévy cerca di dare una risposta è come il cantore della bellezza, intesa come grazia, levità, gesto, divenga a un certo punto tutt’altro: “Come ha fatto quell’uomo, così innamorato della grandezza e del suo mistero, a rinchiudersi nel realismo più rigido, più aspro? Sì, la produzione dell’ultimo Degas è teatro di una catastrofe, come tutta l’arte francese a partire dal 1870”.
Un paio di frasi dello stesso Degas aiutano Halévy nell’elaborare un tentativo di spiegazione. La prima dice: “Ha avuto fortuna quel Rembrandt! Lui dipingeva delle Susanne al bagno; io dipingo donne nelle tinozze”. Aveva un’idea nostalgica della Francia, ancorata in un passato irripetibile: “Si faceva leggere dalla sua domestica e cuoca Zoè i romanzi di Dumas padre, I tre moschettieri, Il visconte di Bragelonne. Se ne stava immobile davanti alla tavola sparecchiata ad ascoltare quella voce che dispiegava per lui la successione delle avventure del popolo francese. Sono convinto che non avesse alcun attaccamento per il parlamentarismo e il laicismo moderno”. Era un po’ una visione della Francia da Mille e una notte, intrighi e sorprese, agnizioni, amori e vendette, pittoresca più che solenne, astorica più che storicistica e il cui sbocco pittorico non sarebbe potuto essere quelle di un Moreau o di un Chavannes: gli piacevano le ballerine, più che le regine… Come dirà a un ricco pittore dilettante che gliene aveva portato via una come modella, allettandola con l’agiatezza: “Signore, non avete il diritto di sottrarci i nostri utensili”.
Proprio perché rifugiarsi nel passato non era possibile, era il presente il suo campo d’azione e a quel punto comprendeva il dritto e il rovescio della vita, il palcoscenico, ma anche i camerini, la grazia ma anche il sudore, la fatica, la decadenza, il fallimento. La fine del Secondo Impero rendeva improponibile quel mondo di vaudeville e di operette, euforico e fatuo che prima era stato il suo: i fantini, i cavalli e le corse, le ballerine, i cappelli a cilindro e la giovinezza. Mai come allora demi-monde e demi-liberté si erano dati la mano, un impero rimasto a metà, autoritario senza autorevolezza. Ciò che ora ne prendeva il posto, la nuova Francia repubblicana, andava esplorata con la stessa frenetica impazienza usata per quel finto impero che l’aveva preceduta: c’era in essa una bellezza, un’arte che andava rivelata in quanto nuova, inedita, tragica, non realismo volgare, ma la scoperta della bruttezza come elemento che si trasforma in bellezza dell’opera, dell’ignominia che si fa perfezione, la sofferenza come nuova vocazione.
L’altra frase di Degas è sotto quest’ultimo aspetto emblematica: “A parte il cuore, mi sembra che tutto invecchi in proporzione. E anche questo cuore ha qualcosa di artificiale. Le ballerine lo hanno cucito in un sacchetto di seta rosa, una seta rosa un po’ stinta, come le loro scarpette da ballo”. Fino da Bambina adoravo le sue ballerine, forse perché io stessa facevo danza classica…e poi l’amore per l’arte ci ha uniti in una sola cosa.


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