TRA GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA …VI RICORDATE SRAH MUMULLINS? HONG LONG…LA LAVERTY, MA ANCHE SARA..PROTAGONISTE DI UN LIBRO A TINTE FOSCHE….. ANGELA DAVIS, DIANA VREELAND O CANDICE BERGEN?…UN REGNO DI VETRO DI OSBORN …EDIZIONI ADEPHI

Un regno di vetro di Osborn…..una lunga premessa per introdurre un’epoca, uno stato d’animo la letetratura….ma anche las toria un romanzo dai toni forti e a volte dolci…in ogni caso da leggere…….Trentenne, provinciale, “usa la forchetta come un pugnale”, sola, “cupa per temperamento, tanto enigmatica da incuriosire anche a distanza”, Sarah Mullins è riuscita a divenire la segretaria tuttofare di un’anziana e famosa scrittrice e della fondazione a lei intitolata. La aiuta nella corrispondenza, enti pubblici, premi letterari, università, e ammiratori privati, semplici lettori, collezionisti di autografi e di manoscritti; la accompagna a reading e presentazioni varie; le fa da filtro, la tranquillizza rispetto ai guasti che la vecchiaia porta con sé. Man mano che “la vecchia” perde colpi, la giovane si fa più intraprendente: ha imparato a rifarne alla perfezione la grafia, ha cominciato nella solitudine “di una stanzetta di tre metri per cinque, con un lettuccio, un lavandino in un angolo e una piastra elettrica usata di rado” e dove nessun estraneo è mai entrato, a dar vita a un universo letterario parallelo, falso eppure perfettamente credibile, in cui April Laverty, questo è il nome della scrittrice, scrive a Angela Davis, Diana Vreeland, Candice Bergen, gli anni Sessanta e Settanta della contestazione e dell’impegno, ma anche del glamour, quando April era una stella letteraria di prima grandezza e Sarah non era ancora nata…Pazientemente ha selezionato un quarantina di questi cimeli apocrifi, e con altri ventotto pezzi autentici è volata, previo appuntamento, a Hong Kong, dove c’è un miliardario cinese, William Chan, con l’hobby della letteratura: possiede due fra le più vaste biblioteche della città, venera la Laverty, è disposto a pagare di più e meglio, niente burocrazia e in contanti, pur di assicurarsi qualche scampolo scritto di una celebrità a cui la longevità potrebbe ancora riservare il Nobel o un prestigioso premio alla carriera. Come molti scrittori di successo, la Laverty ha del resto un conto estero a Hong Kong, per motivi fiscali, “radical chic che quatti quatti pagavano meno tasse della piccola Sarah Mullins”…

A Hong Kong, dunque, Sarah ha felicemente concluso la sua missione e la sua macchinazione, ha venduto il falso mischiato al vero, ha versato sul conto della Laverty, che intanto in patria sta scivolando verso la demenza, una cifra non indifferente, si è tenuta per sé 200mila dollari, il giusto corrispettivo, ha pensato, delle sue lettere taroccate. Bene, ma che fare adesso? Quanto tempo ha a disposizione prima che Chan e la Fondazione si scambino le loro impressioni e la seconda proceda a un inventario ragionato e controfirmato di ciò che è stato venduto e acquistato? Il progressivo andare fuori di testa della Laverty ha provocato scompiglio nella fondazione e Sarah sa di averne approfittato: era l’ultima ruota del carro, ma anche la ruota considerata la più affidabile perché la più devota all’opera e alla persona della grande scrittrice…

Occorre scomparire, insomma, rendesi irreperibile e irriconoscibile. “Anonima, in abiti da professionista, i soldi a disposizione: una falsaria dalla futura taglia sulla testa”. E’ così che Sarah si sente, ma anche “al comando del proprio mondo per la prima volta nella vita”.

Un parrucchiere, un cambio di colore e di taglio dei capelli può essere sufficiente a modificare una fisionomia, ma dov’è che l’anonimato può ancora di più diventare indistinto? Sarah, lo abbiamo detto all’inizio, è una giovane provinciale, senza amicizie, senza legami, senza uso di mondo, chiusa in un suo universo libresco, impegnata in una “guerra tra lei e le classi opulente, ovvero una guerra dove tutte le astuzie erano legittime, tutti i colpi bassi legittimati”. Così, la scelta di sparire a Bangkok è il risultato del suo provincialismo e del suo odio di classe: “La città somigliava alla sua idea di un ambiente caotico e senza leggi. Un gorgo che inghiottiva”. In più, “la vasta popolazione di bianchi equivoci l’avrebbe fatta passare inosservata -più che in qualsiasi altra parte della regione, se non del mondo. Da lontano sembrava un riparo ideale”.

Bangkok sia, dunque, e di primo acchito il luogo le sembrerà perfetto. Un complesso residenziale, The Glass Kingdom, decaduto e appartato rispetto al centro, ma in un distretto che era “l’arsenale dell’era hipster. C’erano palestre di yoga, bar che servivano caffè espresso, ristoranti aperti fino a tardi, aperibar giapponesi, lavanderie a secco, supermercati di prodotti bio”. L’Oriente come piace agli occidentali…

Il regno di vetro (Adelphi editore, traduzione di Mariagrazia Gini, 265 pagine, 20 euro) si chiama appunto il romanzo di Lawrence Osborne che narra la storia di Sarah Mullins, la sua truffa, la sua fuga da un Occidente che le ha provocato solo umiliazioni e risentimento. Intorno a lei, l’autore fa gravitare un microcosmo femminile esemplare: C’è Ximena, una cilena che fa la chef in un ristorante francese dal pretenzioso nome di La Tour Eiffel; c’è Natalie, inglese e manager di un albergo di lusso; C’è Mali, euroasiatica e prostituta d’alto bordo…Ciò che le accomuna è il loro fare parte dei farang, ovvero gli stranieri viziati e/o viziosi che si illudono di essere un gradino ben sopra alla popolazione locale, ma da quest’ultima disprezzati perché considerati malsani, senza valori, senza divinità. Non è un caso che tutte abbiano come domestica una thailandese, Goj, che si illudono di comandare, perché la pagano, e che invece sottilmente le manipola e le sfrutta senza pietà.

Soprattutto, però, al di là e al di sopra di questo microcosmo che è anche fatto di segreti, sensi di colpa, ambizioni e frustrazioni, c’è Bangkok, epitome di un Oriente inafferrabile e inquietante, inquinato e tuttavia puro, vendicativo, ma con un suo senso di giustizia. E pochi scrittori sono, come Osborne, in grado di raccontarcelo. Del resto, il miglior libro di Osborne, peraltro narratore di lungo corso, da Il turista nudo a Nella polvere, di intitola proprio Bangkok, pensato inizialmente come un romanzo, ma nel tempo trasformatosi in una sorta di reportage, libro di viaggio e insieme di meditazione, riflessione su una città e una particolare fauna umana che la popola, quella appunto del farang, dello “straniero” bianco che finisce per insabbiarvisi e non andarsene più.

Ciò che però differenzia in profondità Bangkok da L’impero di vetro è che nel primo quello di Osborne era uno sguardo maschile, mentre nel secondo l’attenzione è tutta rivolta al femminile. Lì l’autore ci presentava l’antico Siam come una sorta di ultima Thule per un occidentale in fuga dai due peccati che la sua civiltà non intende redimere: quello di invecchiare, quello di continuare ad avere impulsi sessuali, una “cultura del corpo” per dirla in breve, dove un’educazione al piacere e al bello, una religiosità senza impacci sessuali, una natura lussureggiante, facevano il resto…

Qui, invece, la condizione di farang al femminile da un lato è più rassicurante: “Moltissime donne farang amano Bangkok perché è l’unica città dove non vengono continuamente molestate. Non le guardano neanche. Possono girare per bar alle tre del mattino nell’anonimato e nell’immunità più assoluti, ridotte, per una volta, a fantasmi senza sesso”… Dall’altro, più tremenda: “Secondo me finiremo tutte sole, chi per un verso chi per un altro. La nostra generazione sarà la più emarginata. A cinquant’anni saremo devastate. Sole, circondate da gatti e da libri. Nessuno vuole ammetterlo, ma finiremo così: in una solitudine condita di gatti”.

Nell’attesa, “si viveva in un limbo, il paradiso dell’indolenza mentale forzata, cicale d’acqua rasente alla superficie di una vasca di cui non avrebbero mai conosciuto estensione e natura. Di sotto, gli abitanti veri li guardavano e potevano risalire dal fondo in qualsiasi momento e depredarli. Erano perennemente vulnerabili. Anzi, era questo che le piaceva, sebbene non fosse molto logico sul piano razionale. Ogni giorno c’era una piccola sensazione di rischio”.

Indolenza mentale forzata, vulnerabilità e rischiosità, predatori che dal fondo della società salgono d’improvviso alla superficie di una piscina all’apparenza paradisiaca…Sono tutte queste cose che condizionano in maniera diversa le ragazze di L’impero di vetro. Ma se l’euroasiatica Mali è la più agguerrita per fronteggiarle, l’americana Sarah, truffatrice occasionale, ma disarmata rispetto alla vita, è invece una vittima predestinata.

Ultimo elemento di differenza fra Bangkok e questo romanzo è anche l’evoluzione politica della Thailandia. Rispetto ai propri vicini orientali, quest’ultima non è stata stuprata dall’ideologia, come è avvenuto per la Cambogia, non è stata dilaniata da una guerra civile e da una guerra di liberazione, come è stato per il Vietnam, non conosce una dittatura cieca come la Birmania. Ma nell’ultimo ventennio, colpi di Stato e crisi economico-finanziaria hanno reso il Paese più insicuro e lo hanno imbruttito: “Con l’inverno l’aria era stata così inquinata che i valori superavano quelli di Pechino e Delhi”. Repressione militare, cortei di protesta studenteschi, attentati hanno scavato ulteriormente la fossa fra il suo Oriente profondo e il suo Occidente che si limitava a galleggiare…

Nella quarta di copertina, Osborne viene presentato come “l’erede accreditato di Graham Greene”., ma non ne sarei così convinto. Il mondo di Greene è pieno di perdenti occidentali che però si ostinano ancora a credere in qualcosa, una fede, un amore, un’ideologia. Hanno ancora il senso della storia, di un destino, di una civiltà.  Nel Regno di vetro, come osserva Ximena, “gli occidentali credono che la storia sia finita e che non li tocchi più. Si considerano ormai fuori. Le proteste, le rivolte, i colpi di Stato: zero interesse. Non sono più cose che li riguardano”. La pensa così anche Sarah, mentre il suo condominio di lusso si svuota, ci sono i black out e si resta senza luce e senza aria condizionata, cominciano a circolare i cani randagi e nella piscina arrivano i varani…Continua a credersi in un rifugio, Sarah, non in trappola. Si sbaglia.


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