MARIO VARGAS LLOSA-ATTENZIONE PERO’ ALLA COMETA CHE SI POTRA’ AMMIRARE ANCORA PER POCHI GIORNI

Questa cometa non e’ altro che la congiunzione tra Saturno e Giove. La si è potuta vedere dopo 800 anni. A scoprirla e a fotografarla, l’Osservatorio di Genova. E per rimanere in tema con il globo ecco la storia di un piccolo Paese. Settata per cento di Indios analfabeti su tre milioni di abitanti. Una vera impresa e un tentativo in nome della “liberta”, di una “democrazia”. Con un colpo d’occhio si puo’ dare uno sguardo alla carta geografica, si vedrà che il Guatemala se ne sta a cuscinetto tra grandi realtà, in quell’escrescenza finale del Centro America che ha Panama, e il suo canale, come sbocco sudamericano e il Messico come sua frontiera al nord, dove poi cominciano gli Stati Uniti. Quest’ultimi si affacciano sul Golfo del Messico e si allungano, con lo Stato federale della Florida, sino all’omonimo stretto, poche miglia marine, che lo separa da Cuba e, oggi, da ciò che resta del castrismo. Riassumendo, gli Stati confinanti con il Guatemala sono El Salvador, il Belize e l’Honduras. Nicaragua, Costarica e il già citato Panama completano la mappa centro-americana di cui noi superficiali e un po’ svogliati europei abbiamo conoscenza, di là dall’esotismo di qualche nome, Tegucigalpa, Managua, San José, per i ripetuti golpe, regimi militari e regimi autoritari succedutisi nel Secondo dopoguerra e che, eccezion fatta per il Brasile, si sono poi verificati anche lungo tutto il Sud America, dal Venezuela all’Argentina, al Cile, passando per la Colombia, l’Ecuador, il Perù e la Bolivia, nonché riverberandosi su quel Mar dei Caraibi in cui, oltre appunto a Cuba, si bagnano Haiti, la Repubblica dominicana, Portorico…

Si può dire tranquillamente che nell’insieme si tratti, dal punto di vista geopolitico, del “cortile di casa” degli Stati Uniti, è difficile negarlo: il Guatemala, per tornare da dove siamo partiti, è a due ore di volo da Miami, più o meno quanto noi ci mettiamo, sempre in aereo, da Milano a Palermo, e a due passi da quel centro nevralgico del traffico marittimo e non solo che è il canale di Panama.

Come negare anche che su quel “cortile di casa” gli Stati Uniti esercitino e allenino la loro vocazione imperiale, anche se si tratta di una vocazione sui generis, come ebbe già modo di osservare André Malraux negli anni Sessanta del Novecento: “Gli Stati Uniti sono nella strana condizione di un Paese divenuto il più potente della sua epoca senza averlo davvero cercato. Più o meno, volevano vendere macchine per cucire. Le hanno vendute. Con non poche altre cose. Sono probabilmente un caso unico nella storia”. Detto in altri termini, l’imperialismo americano è un imperialismo senza imperium (corsivo), una nuova Cartagine, per intenderci, non una nuova Roma. Non deriva da un disegno, ma da un peso. Se ogni politica storica è inseparabile da un progetto, gli Stati Uniti sono per certi versi la nazione meno storica della terra.

E’ proprio la particolarità dell’imperialismo americano il centro del nuovo romanzo di Mario Vargas Llosa, Tempi duri (Einaudi, traduzione di Federica Niola, 309 pagine, 20 euro). Vargas Llosa è un nome che non ha bisogno di presentazioni e anche qui la sua maestria nel saper fondere realtà storica e realtà romanzesca si impone al lettore fin dall’inizio. Ma prima di parlare del romanzo in sé, la ricostruzione del golpe teleguidato dalla Cia che nel 1954 rovesciò il governo Arbenz, vale la pensa soffermarsi sulla lezione che l’autore ne trae, tanto più significativa nel suo provenire da uno scrittore liberale quanto a convinzioni politiche e ideologiche, per nulla sedotto da terzomondismi, collettivismi, comunismi eccetera.

Osserva dunque Vargas Llosa che quell’intervento nordamericano in Guatemala ritardò “per decenni la democratizzazione del continente” e costò migliaia di morti “perché contribuì a diffondere il mito della rivoluzione armata e il socialismo in tutta l’America latina”. A lungo, osserva ancora, ci sarà in quel Paese e nel resto del continente un proliferare di “guerriglie, terrorismo e governi dittatoriali di militari che assassinavano, torturavano e saccheggiavano i loro Paesi, rimandando l’opzione democratica di un altro mezzo secolo”. Infine, quel “trionfo passeggero, inutile e controproducente” ha contribuito a “radicalizzare e a indirizzare verso il comunismo il Movimento26 di luglio di Fidel Castro”. Ancora nel 1953, quando quest’ultimo viene arrestato dopo l’attacco alla caserma Moncada di Cuba, ciò che egli vuole è “la democratizzazione e la modernizzazione” del suo Paese, la stessa allora tentata dai governi guatemaltechi di Arévalo prima e poi di Arbenz, ben lontana “dagli estremi collettivisti e dittatoriali” che avrebbero poi pietrificato Cuba “in una dittatura anacronistica e impermeabile a ogni accenno di libertà”. L’intervento degli Stati Uniti in Guatemala farà trarre a Castro due ovvie conclusioni: la prima è che una rivoluzione per consolidarsi deve liquidare l’esercito, cosa di cui si occuperà Che Guevara con le fucilazioni in massa di militari nella fortezza La Caba^na…La seconda è l’indispensabilità di un’alleanza con l’Unione Sovietica e, di qui, l’adozione del comunismo, per blindare l’isola “contro le pressioni, i boicottaggi e la possibilità di aggressioni degli Stati Uniti”.

Che il golpe in Guatemala “teleguidato” da Washington nasca in difesa degli interessi della United Fruit Company, la futura Chiquita, preoccupata non tanto dalla riforma agraria del governo Arbenz, quanto dalla prospettiva di perdere il suo monopolio e di dover pagare le imposte di cui era stata fino ad allora esentata, rimanda a quell’idea delle “macchine per cucire” avanzata da Malraux, cioè di un disegno economico che precede e/o sostituisce ogni disegno politico e contempla una tattica immediata di profitto e non una strategia a lungo termine.

A ciò si aggiunge il fatto che, rodati da due guerre mondiali, nelle quali sono comunque entrati di malavoglia, ma dopo le quali sono divenuti consapevoli di un nuovo ordine mondiale che gli assegna la primazia nel campo occidentale, gli Stati Uniti hanno per i loro vicini latino-americani, in specie i più piccoli, un atteggiamento non dissimile da quello usato verso i nativi americani che si sono ritrovati in casa, vale a dire i pellerossa. Come scrive Vargas Llosa, dando voce alla sconsolata riflessione del presidente Arbenz alla moglie: “Ci hanno mandato uno scimpanzè come ambasciatore. -E perché non avrebbero dovuto?- aveva ribattuto lei -per i gringos (corsivo) non siamo forse una specie di zoo?”

Si inserisce qui l’altro elemento che fa di Tempi duri un romanzo di straordinaria attualità, vale a dire l’uso della propaganda, non però quella appannaggio degli Stati totalitari, ma quella che è moneta corrente nei sistemi liberaldemocratici, ovvero il combinato disposto “della manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse tramite la stampa, la radio e la televisione”, grazie alla quale si orienta non solo il pensiero del cittadino comune, ma del governo stesso, che è spinto ad agire non per decisione propria e meditata, ma per adeguarsi  ciò che i suoi manipolati cittadini credono sia giusto.

Nella fattispecie, come scrive Vargas Llosa, fino al giorno prima né il governo degli Stati Uniti né l’opinione americana avevano l’idea “che il Guatemala esistesse, e meno che mai che costituisse un problema, il cavallo di Troia dell’Unione Sovietica infiltrato nel cortile di casa degli Stati Uniti”. Per convincerli del contrario, secondo quanto pianificato dalla United Fruit Company, bisognerà far passare l’idea “che il Guatemala sia sul punto di finire nelle mani dei sovietici” e farlo attraverso “l’informazione progressista, quella che leggono e sentono i democratici, ovvero il centro e la sinistra, quella che raggiunge il pubblico più vasto, la stampa liberale” e “massaggiando, se è il caso, con affetto l’ego dei giornalisti, che in genere è molto sviluppato”. Ed è quello che accadrà.

Lungi dall’essere la semplice cronaca di un golpe annunciato, Tempi duri ha come valore aggiunto la pirotecnica arte narrativa di Vargas Llosa, figure come la giovanissima Martita Parra, soprannominata Miss Guatemala per la sua bellezza, amante del colonnello golpista Carlos Castillo Armas, detto “Faccia d’Ascia, e, dopo il suo assassinio, esule nella Repubblica domenicana con il suo nuovo compagno, AbbesGarcìa, il capo dei locali servizi di sicurezza, e poi negli Stati Uniti. Fra gli altri comprimari spiccano Enrique Trinidad Oliva, detto “il Bifolco”, uomo della giunta di Castillo Armas e poi fra i congiurati che lo faranno fuori, a sua volta arrestato e sbattuto in galera da una nuova giunta militare, uomo di fiducia del narco-traffico con la Bolivia una volta uscito dal carcere, vittima infine di un attentato; l’ambasciatore americano Peurifoy, soprannominato “il Cowboy”, che prima sponsorizza un golpe interno e poi appoggia un’invasione militare fatta dai ribelli del golpe precedente…Mescolando  i piani temporali, portando il lettore avanti e indietro nel tempo, prestando ai suoi protagonisti reali, la realtà, ora sanguinosa ora commovente, dell’invenzione letteraria, Vargas Llosa racconta l’odissea di un piccolo Paese, tre milioni di abitanti, settanta per cento di indios analfabeti, trattato come una cavia da laboratorio e il suo sogno di divenire una democrazia moderna trasformato in incubo.  Ma la Democrazia esiste per davvero?! Oggi il bilancio dei giornalisti arrestati nel mondo sono uno sproposito, molte le donne.


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