I MODERATI – UN ANTEPRIMA DELLA PREFAZIONE DI STENIO SOLINAS AL LIBRO DALLA CASA EDITRICE OAKS PER IL VOLUME DI ALBERT BONNARD CHE USCIRA’ A GENNAIO

I Moderati, questo malebonnarddownload del secolo

Stenio Solinas

Il 1883 in cui venne al mondo Albert Bonnard, fu anche l’anno in cui dal mondo se ne andò il conte di Chambord, ultimo pretendente dei Borbone al trono di Francia. Dieci anni prima, morto Napoleone III in esilio, soffocata nel sangue la comune di Parigi, la neonata Repubblica parlamentare uscita dal disastro di Sedan e dalla fine del Secondo Impero era stata vissuta come una tappa improvvisata sulla strada di una pressoché certa restaurazione monarchica.  Stando a uno storico come René Remond, in quei giorni l’ora segnata sul quadrante “è quella della vecchia Francia del 1850”, eppure sarà proprio la “vecchia Francia” a mancare il suo appuntamento con la storia. Il conte di Chambord condiziona infatti il ritorno della monarchia al rifiuto del tricolore e all’adozione come bandiera dei gigli borbonici in campo bianco, quei gigli insanguinati dalla Rivoluzione dell’89. E’ una richiesta che spacca il fronte realista, dove ci sono anche gli orleanisti, ovvero gli eredi di quel Luigi Filippo che ha combattuto a Valmy con i giacobini e contro la restaurazione e che nel 1830 si è ritrovato re per volontà del popolo di Parigi e di fronte al tricolore dell’H^otel de Ville. Facendo tabula rasa di settant’anni e passa di storia, il legittimista Chambord cancella proprio quel passato che giustifica il loro presente e si fa garante del loro futuro: non avendo figli, una volta scomparso dovrebbe essere un Orléans del ramo cadetto a tornare sul trono…

Così, mentre i monarchici si dividono e si accapigliano e i bonapartisti si condannano a sterili velleità autoritarie, la Repubblica che nessuno sembra volere si fortifica e nelle elezioni del 1877 conferma la sua maggioranza parlamentare. “Per essere rimasto re, il conte di Chambord non ha osato tentare di ridiventarlo del tutto” scriverà sconsolato Bonnard in Les moderés, I moderati, il pamphlet che da un lato è il grido di dolore per un mondo scomparso e dall’altro l’invettiva contro quello che ne ha preso il posto. “La sua corona brilla di uno strano splendore, vanamente perfetta, perché non è più che un simbolo”.

Les moderés esce nel 1936 e Bonnard, da poco divenuto accademico di Francia, è un monarchico cinquantenne di talento e di successo che ha in odio la III Repubblica in cui si è ritrovato a vivere. Due anni prima, durante i cosiddetti “moti di febbraio” scatenati dall’affaire Stravisky, e dove per la prima volta manifestanti di destra e di sinistra si sono scagliabonnard-quadeodownloadti insieme contro il Parlamento, si è illuso che quel regime avesse le ore contate, e invece…Quando il libro viene pubblicato il Fronte popolare ha appena vinto le elezioni, socialisti e radicali sono andati al governo con l’appoggio esterno del Partito comunista, e insomma la III Repubblica sembra essere risorta dalle sue ceneri Bonnard vive tutto questo come un soprusi e un abuso, il che, visto il suo odio senza sconti per l’ideologia repubblicana, è tanto ovvio quanto incomprensibile. Lo vive però anche come un tradimento, l’ultimo in ordine di tempo, di quel mondo genericamente di destra, conservatore, reazionario, aristocratico, nazionalista, borghese, che fin dall’inizio a quella Repubblica non ha saputo e/o voluto opporsi: ne è stato fagocitato, usato, sedotto e abbandonato. “I moderati sono le femmine della politica: desiderano subire una piacevole violenza. L’idea di venire salvati da un avversario sta loro sempre in fondo al cuore”.

Per Bonnard, dunque, dietro quell’aggettivo non c’è tanto o solo un ceto politico, una classe sociale, un’ideologia. C’ è anche e forse soprattutto un tipo umano. A farne parte è chi si “adatta al disastro “perché comunque gli permette di continuare ad esistere in un regime “in cui aveva il vanto di giocare e l’abitudine di perdere”. E’ “l’ultimo avanzo di una società che i suoi avversari non hanno mai cessato di odiare” e quindi non sogna che “di venire a patti” con quello stesso avversario… E’ chi “arde dal desiderio di cedere alle tentazioni” e perciò “getta le armi senza per questo interrompere la guerra che gli veniva mossa”. I suoi rappresentanti, insomma, “sono l’ultima emanazione di un mondo che sono incapaci di continuare poiché non lo comprendono nemmeno più. Dietro i radicali c’è un’ondata selvaggia che sale; dietro i moderati non c’è che una civiltà che muore”.

Fermiamoci un attimo e torniamo alla Francia politica di quel tempo. Politicamente parlando, i moderati fustigati da Bonnard altro non sono che quei monarchici che hanno tradito l’idea e l’essenza stessa della monarchia. Sono monarchici di nome, non di fatto: non credendo più nella sostanza che incarna il simbolo, sono divenuti il capro espiatorio e lo zimbello di quella Repubblica che ne ha preso il posto. Ma nella Francia degli anni Trenta, una restaurazione monarchica è ancora possibile? L’impasse del cinquantenne Bonnard è proprio questo. Nato sul finire del secolo precedente, la giovinezza di Bonnard ha coinciso con l’affermazione dell’Action Française, di Charles Maurras, che è un movimento politico e un’associazione culturale: ha un suo quotidiano, ha i suoi giovani attivisti, i “camelots du roi”, vi transita il meglio dell’intellighentia nazionale dell’epoca e Maurras è giudicato da tutti, avversari compresi, una delle menti più brillanti di Francia. A metà degli anni Venti però, il veto di adesione posto dalla Chiesa cattolica “alle scuole di coloro per cui gli interessi dei partiti precedono quelli della religione”, condiziona pesantemente l’ambizione maurrassiana di mettersi alla testa di un movimento che sia al tempo stesso monarchico, cattolico e popolare…Sul verdante repubblicano, l’aver portato la Francia alla vittoria nella Prima guerra mondiale, è un ulteriore contributo al mito di una  Repubblica che, nata sulle rovine di Sedan, quarant’anni dopo ha inferto alla Germania la più cocente delle umiliazioni. In quegli stessi giorni del 1934 in cui Bonnard spera nella caduta della III Repubblica, Drieu la Rochelle, per quanto a sua volta speranzoso, non può fare a meno di notare che “il piccolo partito di Maurras è come il lievito nella parta francese; ma quando la pasta si alza, si scopre che essa è fondamentalmente repubblicana”. Tra Bonnard e Drieu passano una decina d’anni, sufficienti però perché al nostalgismo monarchico del primo subentri il “socialismo fascista” del secondo… Tra Bonnard e Robert Brasillach ne passano invece quasi trenta e ce n’è d’avanzo insomma perché con la ferocia della giovinezza quest’ultimo possa porre la questione monarchica nei suoi termini più crudi: “Sono noti gli argomenti portati da Charles Maurras a sostegno della monarchia. Essi ci appaiono, osiamo dirlo, non solo mirabili per rigore logico, ma fondati sull’esperienza e la verità. Tuttavia nessun monarchico ci contraddirà se affermiamo che a mezzogiorno non è notte e che in questo momento, non c’è il re…L’interregno, ormai, è prossimo al secolo e siamo a un punto in cui il monarca dovrebbe essere un Ugo Capeto, ossia molto più il primo che non il continuatore. Tocca al conte di Parigi far prova di essere Ugo Capeto. Non a noi”.

Quando, su Je suis partout, Brasillach pone la pietra tombale sulla restaurazione monarchica, è il 1941 e i giochi bonnardquadro1imagesormai sono andati troppo avanti per poter tornare indietro. La III Repubblica si è squagliata nella primavera del 1940 come neve davanti al sole  cingolato dei carri della Wermacht e Bonnard, come Drieu, come Brasillach, come lo stesso Maurras si è ritrovato  a fianco di Pétain e del nuovo governo di Vichy. Le motivazioni per la stessa scelta sono fra loro contradittorie e/o diverse (Maurras, per dirne soltanto una, resta fieramente antitedesco in un governo che per sopravvivere ha bisogno dei tedeschi…), e non staremo qui ad esaminarle. Di tutti però solo Bonnard è quello che ha un ruolo politico attivo: ministro dell’Educazione nazionale. A guerra finita si ritroverà vinto e fuggiasco in Spagna, una condanna a morte in contumacia per “collaborazionismo col nemico”. Nel 1960 la pena verrà commutata in dieci anni di esilio, già scontati. Morirà a Madrid, nel 1968.

Un anno prima, però, Les moderés è stato tradotto in italiano dalla casa editrice Volpe. Come sopra-titolo ha “il dramma del presente” e nelle intenzioni dell’editore dovrebbe servire a illuminare il lettore sull’attualità italiana, politica e culturale, pinea “di figure di mezza tacca naviganti a lumi più o meno spenti nelle acque del parlamento e dei partiti del sottogoverno o della cultura, moralmente ottuse, spiritualmente nulle” scrive nella sua prefazione Luigi Emery. Giovanni Volpe, il figlio del grande storico Gioacchino Volpe, è un editore borghese, conservatore, spiccatamente di destra, in Italia c’è il centro-sinistra, di lì a nemmeno un anno scoppierà il fenomeno della contestazione, il Sessantotto , appunto, e insomma l’equazione è abbastanza chiara: i moderati altro non sono che i conservatori che hanno tradito, quelli che, per dirla ancora con Bonnard, di fronte alla “ideologia del movimento, andare sempre avanti, senza nemmeno sapere verso cosa” non hanno saputo né voluto opporsi. Rappresentano quel ceto medio borghese che spera nella rivoluzione perché non osa più credere nella conservazione. Ma le cose stanno davvero così?

Facciamo un passo indietro e vediamo di spiegarci meglio. In Les moderés lo spartiacque è la rivoluzione francese. La Repubblica dell’89 taglia la testa al re e prende il posto dell’Ancien Régime: destra e sinistra nascono allora e per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento continuano a contrapporsi pur negli imprevisti della storia, nei cambi di campo e di casacca, nella stessa curiosa eterogenesi dei fini… C’è Napoleone e c’è la rivoluzione, c’è la monarchia borghese e c’è il bonapartismo di ritorno, c’è l’impero di Napoleone III, la sua fine, il ritorno della Repubblica, etcetera. Lo abbiamo visto ed è sufficiente per farci dire che, comunque, tradizione, reazione, conservazione e le loro estrinsecazioni politiche sono parti attive nella storia della Francia moderna.

Ma da noi? Il processo unitario italiano fa del risorgimento una realtà innervata proprio dalla Rivoluzione francese, di sinistra, quindi, non di destra, progressista, non conservatore. Per fare l’Italia è necessario fare tabula rasa di ciò che c’era prima, schematizzando al massimo… Ne consegue che nel particolare caso italiano, la dicotomia che viene a istituirsi, a Unità conclusa, non è fra conservatori e progressisti (il cuore del libro di Bonnard, che accusa i primi di aver rinnegato se stessi), ma nella divisione, propria al secondo campo, fra riformisti e progressisti. Il polo riformista, ovvero moderato, si distingue da quello rivoluzionario, ovvero progressista, non per il suo conservatorismo, ma per l’approccio diverso alla stabilità nazionale raggiunta: non traumatico, non caotico, prosaico e non retorico. Inoltre, la “questione romana”, ovvero la presenza dello Stato pontificio prima come corpo estraneo al processo nazionale, poi come conquista che archivia il potere temporale del papato, trasforma ogni possibile velleità conservatrice in realtà reazionaria e ci vorrà almeno mezzo secolo, i Patti Lateranensi, per venirne a capo. Per inciso, il fenomeno del trasformismo come realtà intrinseca del regime parlamentare italiano, italiano, racconta proprio questo: maggioranze composite e più o meno occasionali dove riformisti e radicali, moderati e progressisti si possono scambiare le parti perché partecipi dello stesso sistema di valori rivoluzionari che è alla base del neo-nato Stato italiano. Nessuno rimpiange il passato, nessuno vuole conservare il passato, nessuno vuole tornare al passato…Anche il Fascismo rientra in questo schema. E’ un movimento dai connotati radicali e rivoluzionari che viene però percepito dai moderati italiani che lo appoggeranno, il listone nazionale del 1924, come garante della modernizzazione e della stabilità socio-economica, rispetto al rivoluzionarismo del cosiddetto “biennio rosso”. In sintesi, nel primo mezzo secolo di storia unitaria, un partito conservatore non esiste perché la realtà politica ne impedisce l’esistenza. Semplicemente.

Dopo il 1945, la nuova Italia che comincia a delinearsi ripropone, sia pure con alcune varianti, lo schema ideologico-politico precedente. C’è una componente progressista e/o rivoluzionaria, il cui cardine è il Pci, c’è una componente riformista e/o moderata il cui cardine è la Democrazia cristiana. L’una e l’altra presentano all’interno variazioni, come dire, cromatiche, nel senso che l’alto tasso ideologico comunista impedisce, almeno formalmente il trasformismo d’antan come pratica politica, ma non la sua variante partitocratica, che è poi il trasformismo sotto mentite spoglie. A partire dagli anni Sessanta la stagione del centro-sinistra non sarà altro che questo, il connubio moderati-progressisti cementato comunque da un’idea comune di modernizzazione del Paese. E i conservatori? Anche qui non c’è spazio né partita possibile per un partito conservatore. A chi dovrebbe rifarsi? Al Fascismo, personificazione di una dittatura e di una guerra perduta? Inoltre, l’unico partito dichiaratamente nostalgico di quest’ultimo, il Movimento sociale italiano, ne difende proprio l’aspetto rivoluzionario e non conservatore, nel senso di borghese…

Così, nel mezzo secolo abbondante di storia repubblicana, esiste un’Italia di sinistra e un’Italia di centro, un’Italia rivoluzionaria oppure progressista e un’Italia moderata oppure riformista, ma non è data la possibilità di un’Italia conservatrice, di destra, in parole povere, se non dispersa in rivoli incapaci di confluire in un unico fiume: il qualunquismo, i monarchici, il nostalgismo missino..

Il fatto è che il “conservatorismo impossibile” italiano nasce proprio dal non capire che i moderati non si identificano con i conservatori. Nella sua Storia dell’Italia moderata (Rubbettino ed.), Eugenio Capozzi lo spiega in modo esemplare: “Questa consistente parte ‘stabilizzatrice’ e ‘d’ordine’ della società italiana è a sua volta fortemente legata a una forma preideologica: il mito della ‘modernizzazione’ istituzionale, amministrativa, culturale del Paese, che in varia misura essa tende ad associare all’azione di soggetti come lo Stato, la burocrazia pubblica e, paradossalmente ma non troppo, il partito politico”. Ne deriva che, per venire ai tempi nostri, i moderati del berlusconismo si definiscono riformatori e accusano di conservatorismo la sinistra, e i moderati dell’Ulivo prima e poi del Pd si definiscono tali contro l’estremismo dei loro avversari…E, insomma, i conservatori sono sempre gli altri…

Torniamo da dove siamo partiti, cioè dalla traduzione del 1967. Poggiati sulle sabbie mobili dell’impossibile conservatorismo italiano, i moderati di Bonnard affondano: non c’è l’ubi consistam che permette loro di restare in piedi…Eppure, proprio il termine “moderati” conserva il suo fascino ambiguo, indica un modo d’essere che si presta a una doppia lettura, negativa e positiva, e bisogna dare atto a Bonnard di aver scelto un titolo felice e di aver fatto qualcosa di più di un pamphlet politico: un trattato di morale, e per di più scritto con uno stile esemplare.

Spogliato dalle contingenze del suo tempo e dalle letture interessate degli anni Sessanta, I moderati risplendono infatti di quella luce propria che ha a che fare con l’etica dei comportamenti. I lettore mi scuserà se chiudo con una digressione personale, ma vedrà che essa non è né narcisistica né gratuita. All’inizio degli anni Ottanta, in un convegno intitolato Le forme del Politico. Le idee della Nuova Destra, l’intervento da me tenuto si intitolava, non a caso, I moderati. Questo male del secolo.  “I moderasti non sdono i cvonse4rvatori né, tantomeno, i reazionari, i quali almeno hanno dalla loro un sistema di idee cui riferirsi, un metro di principi cui rifarsi. I moderati sono i fautori dello status qui, dell’hic et nunc. La loro idea della politica è una sorta di vacanza dalla storia. Per loro la politica è la gestione dell’azienda. E le aziende non si nutrono di valori, ma di rendiconti. Truccati, se possibile”. E ancora: “L’orizzonte politico dei moderati è in realtà simile al loro orizzonte estetico. Questo è composto di due camere e servizi, qualche gadget all’insegna del confort e del consumo, nessun oggetto perché bello in sé, ma solo perché utile. Quello si ferma alla frontiera con Chiasso, guarda con invidia l’ordine svizzero, sospira sui caveaux però poi si consola pensando che l’Italia ha avuto la sua storia”.  Infine: “Non avendo più dèi né idee, il moderato, convertito o meno, ha alzato il suo altarino a una divinità per nulla sconosciuta, che è quella economica. Egalitario a parole, nella pratica sancisce il predominio di quella che è la forma più bastarda e crudele che una società amante della libertà si sia trovata ad affrontare. Il suo liberalismo non è altro che l’incitamento all’arricchimento in nome dell’arricchimento”.

Trent’anni dopo, il “perché non possiamo dirci moderati” resta ancora d’attualità”.


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