GEORGE GISSING ..QUANDO MORI’ A 50 ANNI SI LASCIO’ ALLE SPALLE UN CENTINAIO DI ROMANZI, ARTICOLI, RACCONTI E SAGGI

George Gissing morì mimato dalla tisi che non aveva neppure cinquant’anni, nel 1903. Si lasciò alle spalle un centinaio fra romanzi, racconti, saggi, articoli. Virginia Woolf lo definì “uno scrittore nato, grandiosamente nichilista”, George Orwell “fra i romanzieri migliori” non tanto e non solo della sua generazione, ma dell’intera letteratura inglese. Il giudizio più penetrante resta però quello di un outsider di lusso quale Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “La disperazione ha trovato in Gissing il suo straziante poeta. Scrisse molto, non ho letto tutto, e ho avuto torto”.

Considerato uno scrittore “vittoriano”, Gissing non aveva nulla del moralismo in pace con sé stesso di un Dickens o del profetismo progressista di un Wells, tantomeno del sussiego borghese di un Trollope. Era nato a metà Ottocento e quindi aveva potuto osservare con occhio disincantato l’Inghilterra imperialista, puritana e sessuofoba che la tarda età vittoriana aveva portato a compimento e che però era andata saldandosi con gli orrori che la modernità, il darwinismo sociale, lo strapotere industriale e capitalistico portavano con sé e di cui Londra ero lo stupefacente risultato: Il West End con i suoi palazzi, l’Est End con i suoi bassifondi.

Figlio di un farmacista, orfano fin da bambino, ingegno precoce, a 15 anni era stato premiato come il miglior giovane poeta, ma a diciannove era già finito in carcere. Brillante studente dell’Owen College, aveva saccheggiato gli armadi dei suoi compagni di corso per permettere di farsi bella alla giovane prostituta di cui si era invaghito. Uscito dal carcere l’aveva sposata e questo ne aveva fatto per sempre un “declassato”, in una società quale quella inglese che del classismo faceva la sua ragion d’essere.

Per i trent’anni successivi non fece che cambiare città, mogli, sanatori, la tisi come unico compagno che non l’avrebbe mai abbandonato e che però l’avrebbe ucciso. Viaggiò anche molto, l’unico altro modo per poter sfuggire ai guai, alla burocrazia, alla miseria, al moralismo ottuso quanto ipocrita dei suoi connazionali. Andò negli Stati Uniti, girò l’Europa, dalla Spagna alla Grecia, all’Albania, morì infine in Francia, in un paesino sul Golfo di Biscaglia. Ma fu l’Italia la grande passione della sua vita e, per certi versi, la sua seconda patria: “Qui mi sentivo felice, anzi molto felice. Sono nato a Roma, sono Romano”. Di questo amore resta testimonianza By the Jonian Sea. Notes of a Ramble in Souternh Italy, che ora Exòrma presenta in edizione critica integrale, arricchita con disegni e schizzi originali di suo pugno, note dei suoi diari, lettere spedite dai vari luoghi del viaggio ai famigliari rimasti in Inghilterra e con un saggio di Virginia Woolf sulla sua arte romanzesca (Verso il Mar Jonio, traduzione e cura di Mauro F. Minervino, 333 pagine, 21 euro). Due scritti dello stesso Minervino, “Il sud di un vittoriano” e “Un maledetto inglese” completano il volume, presentano per esteso la sua opera e per molti versi riempiono un vuoto distratto, se non colpevole della nostra editoria.

Restando a Verso il Mar Jonio, ciò che ne fa ancora oggi un classico della letteratura di viaggio è il rovesciamento di quella che era stata a lungo l’immagine di un’Italia del Grand Tour secondo il modello anglosassone: bellezza e rovine, monumenti e “camere con vista”, passeggiate romantiche al chiaro di luna e annotazioni sul “pittoresco” di un popolo e dei suoi costumi, in mezzo ai quali il gentleman d’’oltre-Manica si muoveva con il pomposo distacco proprio di chi ha a che fare con degli indigeni un po’ selvaggi…

Anche Gissing, nota Minervino, “pensava alla Calabria come a uno scrigno di memorie eterne, in cui i lasciti luminosi del mondo classico dei Greci riposavano accanto all’eredità preziosa di Roma”. Anche per lui, insomma, l’Italia restava nell’immaginazione “The Land of Romance”, culla insieme del romantico e del romanzesco, ma già la scelta di dove andarla a cercare era in controtendenza: non la Sicilia o la Campania dei templi e dei teatri, né la Puglia sveva e barocca, ma la più povera e la più dimenticata delle regioni dell’estremo sud italiano. E quindi, Paola, Cosenza, Catanzaro e Squillace, Crotone, Sibari, Reggio Calabria… Da subito, quello che ne coglie è il cataclisma storico di una nuova modernità che il processo unitario da poco compiutosi coniuga nell’idea di un Meridione la cui arretratezza economico-sociale va combattuta a colpi di ruspa urbanistica, ma senza una logica, un progetto, il nuovo che distrugge l’antico, semplicemente.

Proprio perché inglese, proprio perché conosce de visu ciò che il piccone demolitore del progresso porta con sé, Gissing non ha il rifiuto snobistico di chi si sente deluso allorché il sogno si infrange contro la realtà. Al contrario, vuole capire, cogliere i segni del cambiamento, al di là degli stereotipi, verificare come e quanto tradizioni, stili di vita possano sopravvivere e/o adattarsi al nuovo che avanza. Così, sorprendentemente deve constatare che quella Calabria povera e malamente unita al resto d’Italia è, ciononostante, “il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere”. Resta convinto che “un povero di Crotone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E dopotutto sarebbe stata per me cosa più grata morire qui in un tugurio sul Mar Jonio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace”.

Nel suo girovagare, nel suo confrontarsi con l’abbandono, la povertà e insieme il fatalismo e la gentilezza, raramente la cattiveria, Gissing coglie un altro elemento che lo rassicura e lo conferma nella superiorità, come dire, estetico-morale lì presente rispetto al mondo vittoriano da lui così detestato e combattuto: “Ci dev’essere del buono, una riserva di intelligenza e di grandi risorse in un popolo che ha conservato l’usanza di circondarsi di oggetti di quotidiana bellezza per le necessità familiari del fabbisogno domestico. Confrontare la qualità del corredo popolare di questi semplici utensili domestici qui tanto diffusi -questi orci per l’olio e queste brocche di terracotta per l‘acqua- con quelli presenti di solito nelle case di un operaio industriale o di un lavoratore inglese medio, è un paragone impietoso e oltremodo deprimente. Siamo davvero sicuri che tutte le virtù di un popolo risiedano nella maggioranza silenziosa di coloro che possono vivere tranquillamente nel brutto senza mai accorgersi che è brutto?”.

Ironico, mai pedante né filisteo, curioso della vita fin nei più minimi dettagli, portato per natura a fare amicizia, formidabile ritrattista di uomini come di paesaggi, Gissing consegna al lettore un’immagine non edulcorata, eppure piena di una composta dignità di quel Sud dimenticato e insieme tormentato. Ennio Flaiano, che di questo libro fu lettore entusiasta quanto attento, troverà qui il nome per immortalare una figura tipica della Dolce vita, quel “Paparazzo” incontrato da Gissing, nelle vesti di un cuoco-albergatore che “si onorava di pregare i suoi rispettabili clienti perché vogliano benignarsi il restorante”…

Verso il Mar Jonio sarà l’ultimo libro di Gissing, scritto in fondo come una specie di testamento: “Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto a ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?”. Come spesso accade..gli ultimo romanzi di vari scrittori si parla del mare, come nel caso del Mar Jonio per Gissing.


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