MICHAEL FOUCAULT. UN VIAGGIO NELLA STORIA DELLA FOLLIA NELL’ETA’ CLASSICA

Rientrando in Italia dalla Francia non potevo che imbattermi in questo personaggio e la sua ideologia, la sua capacità letteraria. Nel settembre del 1978 il cinquantenne Michel Foucault, figura di spicco della cultura francese e non solo, autore di saggi acclamanti quanto discussi, Storia della follia nell’età classica, Sorvegliare e punire, pensatore libertario nella sua critica del potere per come si era venuto cristallizzando nelle società occidentali, fece un primo soggiorno in Iran, Paese allora in ebollizione civile e religiosa, con da un lato un regime politico-affaristico-militare al potere, quello dello scià Reza Pahlavi e del suo apparato repressivo; dall’altro l’intera società iraniana, disarmata, ma pugnace nella sua volontà di abbatterlo.

A quel primo soggiorno ne seguì, più o meno un mese dopo, un secondo e l’insieme si concretizzò in una serie di reportage, nove per la precisione, che Foucault scrisse per Il Corriere della Sera. Prima di partire c’era stata da parte sua una frequentazione di quella che era l’opposizione iraniana in Francia, esuli politici, esuli religiosi e esuli intellettuali, nonché di esperti della storia, anche economica, dell’Iran, ma, come egli rivelerà in seguito, il suo interesse per quanti lì stava avvenendo aveva preso corpo dalla lettura di un libro di Ernst Bloch, Il pensiero speranza.

Per Bloch, tanto la speranza era in declino nelle società occidentali, tanto era presente in quelle “in espansione”, sia sotto forma di ispirazione, sia sotto forma di vera e propria messa in opera. Egli si soffermava sul messianismo ebraico da un lato, sul pensiero e la coscienza come luogo di elezione di ogni istanza utopica dall’altro, che andava però a coniugarsi nel terreno storico-filosofico hegelo-marxista. Foucault sostituiva il primo con la dimensione escatologica propria della religione sciita, ma vedeva quest’ultima rappresentata non sotto forma di elaborazione teologica astratta, ma come un vero e proprio “teatro dei corpi”. In sostanza, le sollevazioni iraniane trovavano “la loro espressione e la loro drammaturgia nella forma religiosa”, nel suo manifestarsi, una dimensione non più o non solo pensata sub specie aeternitatis, ma incarnata, perché la sua ragion d’essere era sociale e politica. Corpi come veicoli di mutamenti collettivi e quindi di trasformazioni esteriori che avevano la scena pubblica come teatro e la ritualità come forma comunitaria.

A questa fase preparatoria del tutto teorica, Foucault aggiunse l’esperienza sul campo del suo soggiorno in Iran, incontrando non solo le più importanti autorità spirituali del Paese, ma la gente comune: commercianti, dipendenti pubblici, giovani e anziani, maschi e femmine. Singolarmente, ma non troppo, chi non ritenne opportuno incontrare fu proprio l’ayatollah Khomeini, al tempo esule in Francia: “Quello che a Khomeini interessava dire -spiegherà- lo leggevo sui giornali. Sapevo perfettamente che parlare con lui non avrebbe portato a niente. Era un personaggio politico le cui dichiarazioni, preparate in anticipo dal suo entourage, dovevano avere un certo senso politico”. A lui premeva di più sapere “come vivevano quelle persone che letteralmente stavano facendo la rivoluzione, e la stavano facendo, mi sembra, per conto proprio”. Il che era vero, ma non del tutto, come i mesi a seguire avrebbero dimostrato.

I reportage di Foucault, insieme con le interviste e le polemiche che si moltiplicarono dopo la loro pubblicazione e via via che la “spiritualità politica” da lui sottolineata di quella rivoluzione cedeva il passo a un contro-regime repressivo che sostituiva la Savak, la polizia segreta dello Scià, con i Pasdaran della morale islamica, sono ora raccolti in forma integrale in questo Dossier Iran (Neri Pozza, traduzione e cura di Sajjad Lohi, 205 pagine, 18 euro), con una lucida introduzione di Elettra Santilli, a cui si devono molte delle informazioni prima riportate, e dal significativo titolo “L’errore di Foucault”. In quel “teatro dei corpi” da questi filosoficamente delineato, “oggetto del potere e, al tempo stesso teatro di spiritualità politica”, a non essere presa in considerazione era infatti la sessualità degli stessi, ovvero la condizione femminile rispetto alla “spiritualità del Corano”, tema che a quasi quarantacinque anni dalla nascita della Repubblica islamica, è in Iran tornato tragicamente d’attualità, con rivolte e scioperi che hanno sfidato il potere delle autorità religiose. Foucault, scrive Elettra Santilli, “pur essendo consapevole dello statuto politico delle questioni in gioco”, preferì “non affrontare direttamente il problema, lasciandosi così irrimediabilmente superare dai fatti”.

Va detto, per la verità, che Foucault non chiuse completamente gli occhi sulla realtà della repubblica islamica che, dopo il rientro in patria di Khomeini, nel febbraio 1979, era stata proclamata con tanto di plebiscito referendario: tribunali rivoluzionari, esecuzioni sommarie…E’ dell’aprile di quello stesso anno la sua “Lettera aperta a Mehdi Bazargan”, presidente del governo provvisorio, pubblicata sul Nouvel Observateur, in cui, sia pure con molta deferenza e circospezione, si chiedeva il rispetto dei diritti civili e una concezione della giustizia tale che “questo popolo non debba mai pentirsi della forza senza compromessi con cui si è liberato”.

Va detto altresì che su alcuni punti importanti Foucault vide di più e meglio di molti commentatori occidentali, gli stessi che sino al giorno prima, sull’esempio del presidente statunitense Carter, avevano “annoverato lo Scià tra i difensori dei diritti umani”, gli stessi che si ostinavano a vedere in Pahlavi “un modernizzatore lì dove invece c’era l’arcaico” difensore di uno status quo superato dai tempi.

“Con l’attuale agonia del regime iraniano, stiamo assistendo agli ultimi istanti di una vicenda incominciata quasi sessant’anni fa: un tentativo di ‘modernizzare’ all’europea i Paesi islamici. Quello che è vecchio qui in Iran è lo Scià. Ha l’età dei sovrani predatori e il sogno obsoleto di aprire il suo Paese attraverso la laicizzazione e l’industrializzazione. L’arcaismo, oggi, è il suo progetto di modernizzazione, le sue armi da despota, il suo sistema di corruzione. L’arcaismo è il regime”.

Lo stesso discorso vale nell’aver compreso che quanto in Iran stava avvenendo era “la sollevazione di tutta una società” e, sia pure temporaneamente, una sorta di “sciopero politico generalizzato”, dove l’obiettivo primario non era la forma di governo, ma la cacciata di quello al potere. Tutto ciò era reso possibile dal non essere mai stato l’Iran un Paese “colonizzato”: in sostanza, le sue strutture sociali non erano state né “distrutte radicalmente” né “stravolte dall’afflusso di rendite petrolifere” che, di fatto, non avevano “creato nuove forze all’interno della società. In Iran il rifiuto del regime era un fenomeno sociale di massa”.

Lì dove l’analisi di Foucault si fa più farraginosa è nel non rendersi conto che quella da lui definita “spiritualità politica”, una sorta di calvinismo sotto un’altra latitudine, finiva per innestarsi sul tronco di un integralismo religioso senza se e senza ma. La sua analisi, errata, era che per “governo islamico” nessuno in Iran intendesse “un regime politico nel quale il clero abbia un ruolo di guida o di gestione”. A suo dire, quell’espressione stava a indicare un ritorno al passato, ma anche l’avanzare “verso un punto luminoso e lontano in cui, più che mantenere un’obbedienza, sia possibile ridar vita a una fedeltà”. Un insieme fumoso, insomma, e che nella sua indeterminatezza stava a significare tutto e niente.

Infine, Foucault trovava sbagliato applicare la definizione marxiana “la religione è l’oppio dei popoli” allo sciismo islamico. Da un lato perché, nel corso della sua storia politica, quella religione “aveva avuto un ruolo di opposizione rispetto al potere” e di “risveglio politico, nel mantenimento di una coscienza politica, nel fomentare e nell’incitare alla rivolta le coscienze politiche”; dall’altro perché la citazione di Marx andava completata con quella frase che la precedeva, ovvero “la religione è lo spirito di un mondo senza spirito”. Sotto tale aspetto, “in questo 1978, l’Islam non è stato l’oppio del popolo, proprio perché è stato lo spirito di un modo senza spirito”. C’era un po’ di bizantinismo in tutto ciò e forse Foucault avrebbe dovuti riflettere sul tipo di droga, eroina, crack, Lsd, che intanto il Novecento aveva fatto proprio.


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