“NOTAS” DI LORIS PASINATO CON L’INTRODUZIONE DI FRANCO VOLPI, EDIZIONI GOG 373 PAGINE…25 EURO…Ma PENSIAMO ANCHE AL GENOCIDIO DA PARTE DI ISRAELE

Elucubrazioni mentali? Filosofia? Il gioco di chi scrive e chi crede di scrivere? Uno statutus mentale? Una costruzione algoritmica? Cosa dunque?  Un Notas (Gog edizioni, traduzione e cura di Loris Pasinato, introduzione di Franco Volpi, 373 pagine, 25 euro), di Nicòlas Gòmez Dàvila, è un concentrato da cui poi il suo autore trarrà Escolios, l’opera di una vita. Come i due titoli suggeriscono, entrambi dovrebbero rimandare “a un testo implicito” di cui illuminare i passaggi eventualmente oscuri, ma Dàvila è tutto fuorché un pensatore organico e ha un’idea della scrittura assolutamente particolare. “Scrivere è fare precisamente il contrario di quello che fa la maggioranza di coloro che scrivono”. Detto in altri termini, “io sono carente di opinioni, ho solo idee brevi, transitorie e fugaci, più somiglianti alle locande malandate dove riposiamo una notte piuttosto che alle splendide magioni dove non sappiamo bene se dimoriamo o se siamo prigionieri della loro stessa magnificenza”. Nulla è insomma più lontano da lui dell’edificazione di un pensiero, una teoria, una costruzione mentale e contemporaneamente però nulla lo attrae più del piacere dello scrivere, pur nella consapevolezza di una fragilità intellettuale che lo condanna alla precarietà, una sorta di “eunuco innamorato”, impossibilitato a possedere ciò che ama e però condannato ad amare. Scivere è lascaire una traccia?

Scrivere a margine, insomma, è una condizione mentale, uno status e insieme, rovesciando il gioco, una sorta di “prolungamento ideale, un’opera fittizia” che rimanda all’opera perfetta, soltanto immaginata, e che però idealmente esiste: “Ciò che qui dico sembrerà banale a chi ignora tutto ciò a cui alludo”. Proseguendo nel rovesciamento del gioco, quella che era la “locanda malandata” dove riposare una sola notte a petto delle “splendide magioni” che altro non sono che splendide prigioni, è in realtà un frammento dell’assoluto, rappresentativo della totalità dell’universo stesso: “Il frammento è il mezzo d’espressione di colui che ha imparato che l’uomo vive tra i frammenti”. Così, le note, come gli scoli, ovvero il pensiero aforistico, non sono altro, come osserva Franco Volpi nella sua imprescindibile introduzione, che “la strategia espressiva di un pensiero che cerca di raggiungere il tutto”. Per dirla con lo stesso Gòmez Dàvila, sono “i tocchi di una composizione pointilliste”, lì dove il pittore se ne serviva per dare vita a un insieme: “Filosofia pointilliste: si chiede a lettore che gentilmente faccia la fusione dei toni puri”.

Nato a Bogotà nel 1913, morto nel 1994, Dàvila è uno dei pensatori più interessanti di un Novecento culturalmente intenso. Di buona famiglia, dal suo Paese, la Colombia, praticamente non si è mai mosso, se si escludono i primi studi studenteschi a Parigi e un tour europeo di sei mesi alla fine degli anni Quaranta. Rispetto a Baudelaire, che teorizzava “l’horreur du domicile”, Dàvila è un demaistriano, Xavier de Maistre, non il fratello Jospeh, ovvero un teorico del viaggio intorno alla propria stanza, alla propria biblioteca. Ciò però non gli ha impedito, che fosse fermo o in movimento, di capire come il secolo stesse procedendo: “Viaggiare per l’Europa è come visitare un palazzo dove i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose”. E ancora: “Davanti all’agitazione effervescente delle immense moltitudini asiatiche, l’Europa di ieri assomiglia alla breve pausa degli Antonini”.

Colombiano suo malgrado, “quando si presenta l’occasione di commettere qualche bassezza, il colombiano raramente la spreca”, Dàvila si è sempre tenuto in disparte dalla vita pubblica: rifiutò la carica di ambasciatore a Londra, così come il posto di primo consigliere della presidenza della Repubblica. Il suo ideale politico è un liberalismo aristocratico alla Tocqueville dove “l’acuto senso della libertà non proviene da torbidi aneliti democratici, bensì dalla coscienza inalterabile della dignità individuale e della lucida nozione dei doveri di una classe dirigente”. E ancora: “Salvare, in una volta, l’integrità dell’individuo ed erigere una struttura che impedisca che la società si converta in una massa amorfa e liquefatta è privilegio di uno stato aristocratico, e solo di esso”. Questa visione ha un suo logico pendant letterario: “Retz, Saint-Simon, Chateaubriand, Tocqueville- la cordigliera delle più alte cime”.

Nato e cresciuto nel secolo delle grandi contrapposizioni ideologiche, non gli sfuggono alcuni elementi fondamentali. Il primo è che “comunismo e capitalismo, di fatto trasformano nello stesso senso lo spirito umano. Se il capitalismo genera una società industriale, urbana e gregaria, la retorica obsoleta della predica comunista non riesce a nascondere il fatto terribile che ad un universo abominevole succederà lo stesso abominevole universo. Ce mort saisit ce vif. Cosa ci importa di chi debba essere il padrone della fabbrica, se la fabbrica deve continuare a esistere?”. Il secondo è che il socialismo “è la filosofia della colpevolezza altrui. Che ogni problema dipenda da una struttura sociale ci lascia di colpo deliziosamente giustificati e redenti”.

Notas è uno straordinario zibaldone di pensieri e anche un breviario esistenziale. Dàvila è consapevole che “se il genio è l’infanzia che perdura, l’intelligenza è la gioventù che non muore”. Ma sa altrettanto bene che “i vecchi amano la vita perché vivere è il solo bene che la vita non ha ancora tolto loro”. Altresì, comprende che “il culto della medicina” ha la sua ragion d’essere “in un ‘epoca che non può trovare se non nel suo corpo la realtà che i valori di altri secoli hanno perso. Come non prostrarci davanti a chi ci procura sollievo, davanti a chi promette tranquillità?”. Quanto a lui, “quasi ricco, quasi bell’uomo, quasi intelligente, quasi con talento, la mia vita è consistita in un perpetuo perdere il treno per pochi minuti di ritardo”. E del resto, “passiamo al nostra vita battendo sempre alla stessa porta chiusa”.

Stampato una prima volta dall’autore per un ristretto gruppo di amici, pubblicato poi negli anni Cinquanta per iniziativa del fratello Ignacio, Notas dà anche conto, pur se con parsimonia, di alcuni elementi del carattere di Dàvila, le sue passioni come le sue idiosincrasie, i suoi gusti e i suoi disgusti. Su una in particolare vale la pena soffermarsi, e riguarda la sensualità, o forse sarebbe meglio dire la sessualità tour court. “Il desiderio è il padre delle idee” scrive Dàvila, e “l’intelligenza che dimentica o disprezza i gesti voluttuosi misconosce la densità che presta al mondo l’oscura presenza della carne”. Per lui, l’opera filosofica perfetta non può essere altro che “una metafisica sensuale”, capace di salvare “la ricchezza densa e sensuale del mondo”.

Trasportato nella quotidianità, tutto ciò fa sì che la sua esistenza abbia “solo due punti di pienezza e di equilibrio. Il mio essere si compie solo nella rigida vetta dell’idea o nella bassa e soffocante valle dell’erotismo”. E’ un po’ il miraggio di un mai raggiunto e/o irraggiungibile punto d’equilibrio fra anima e corpo che se da un lato lo allontana da ogni abuso della voluttuosità in quanto tale, dall’altro lo lascia nella consapevolezza che “davanti al corpo delle donne i maggiori eccessi sono insufficienti: Ah! Perdersi in una densa selva tenebrosa e carnale. Aspiriamo a una possessione demoniaca, ma facciamo semplicemente l’amore”. E va da sé che “ogni pensiero sulla donna è una trivialità avvolta in villania”… In questo mondo vedo poco di sensuale…se dobbiamo giocare…se vogliamo fare sul serio scriviamo di una guerra dai contorni non definiti, genocidi, mille nazioni intorno a fare un verso assordante e negativo e un occidente pallido che rischia di farsi inghiottire per stupidigia.


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