ORIENTALISMO ATTRAVERSO GLI OCCHI DELL’OCCIDENTE

Ancora il Mediterraneo al centro di una questione invalicabile ricca di storia e di memoria. Per circa un secolo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il sud del Mediterraneo contribuì da protagonista a quello che Edward Said definì “Orientalismo”, ovvero la rilettura e/o la creazione di un oriente attraverso gli occhi e le azioni dell’Occidente. Man mano che l’antico impero ottomano perdeva i pezzi e le potenze europee si affrettavano a raccoglierli sotto forma ora di protettorati, ora di colonie, ora di contropartite economiche e politiche, sempre più forte l’impronta occidentale finiva con il delimitare territori e disegnare nuove costruzioni mentali, identitarie, architettoniche, una sorta di bulimia di conquista che era anche il tentativo di dar vita a un altro da sé in cui scaricare tensioni, ansie, vie di fuga e sogni di rinascita. Per certi versi, il bel titolo del nuovo libro di Alberto Negri, Bazar Mediterraneo (Gog editore, 150 pagine, 15 euro), ben si adatta all’idea di un gigantesco suk in cui il Vecchio continente andava a fare acquisti e si esercitava nell’arte del travestimento, da Pierre Loti nelle vesti di un sultano d’Arabia al colonnello Lawrence in quelle di principe della Mecca, a Paul Bowles turista per caso e occasionale degustatore di imbevibili tè nel deserto…

Al loro fianco, diplomatici, politici e faccendieri provvedevano a tracciare nuove linee di confine, a incasellare territori e popolazioni in spazi mai fino a quel momento considerati come tali, a insediare e raggruppare comunità sino al giorno prima rimaste fra loro lontane e spesso e volentieri ostili. Nazioni artificiali sorte intorno a centri urbani dove i quarti di nobiltà pregressi si mischiavano alle potenzialità commerciali rese disponibili dalla nuova mappa mediorientale vedevano la luce, portandosi dietro, come una bomba a orologeria di cui s’ignorava l’ora dell’esplosione, istanze di libertà, di indipendenza e, appunto di nazione, invenzione squisitamente europea di cui si comprendeva l’accidente, ma restava ancora ignota la sostanza…

All’indomani della Seconda guerra mondiale e del tramonto dell’Europa come soggetto politico autonomo, questo coacervo di illusioni e di presunzioni, di sfruttamento economico, sociale, politico, e di miopia ideologica, antropologica, culturale, sarebbe arrivato al capolinea della decolonizzazione con tutto quello che negli anni a venire avrebbe comportato e di cui ancora oggi fatichiamo ad avere un’idea, tanto l’entità del disastro balla davanti ai nostri occhi senza che nessuno riesca a scorgere una via d’uscita. L’unico dato certo è che se fino a ieri era stato il solo Occidente a sedere al tavolo da gioco e a distribuire, spesso e volentieri barando, le carte, adesso a quel tavolo ci sono anche i giocatori orientali con pari dignità, se così si può dire, di barare per assicurarsi, tutta o in parte, la posta in gioco.

Inviato, per più di un trentennio, su quei fronti, il Libano e la sua guerra civile, l’Algeria islamizzata, la guerra iracheno-iraniana e le guerre del Golfo, le primavere arabe, il sanguinoso caos siriano e il risvegliarsi della Turchia come neo potenza imperiale, Negri prova a rintracciare un filo rosso tanto esile quanto più volte intrecciato e/o strappato, che riesca a dare un senso al tutto. Tentativo coraggioso e insieme doveroso, ma al termine del quale il lettore si ritrova disorientato al punto di partenza: la discesa nel caos è diventata senza fine e dal fondo del baratro non si riesce più a intravedere la luce.

Non è un caso quindi che la capitale del Libano si trasformi in una “città di fantasmi e di lapidi funerarie”, di cui la terrificante esplosione di un anno fa, il porto di Beirut sventrato, una parte della città letteralmente in briciole, suona come monito destinato a rimanere inascoltato. “Più che un complotto politico o terroristico, sono stati le negligenze, i favoritismi, i traffici sotto banco, gli abusi di potere, tutte queste cose insieme. I politici proclamarono subito di voler trovare a tutti i costi ‘i responsabili’, ma che mi ricordi a Beirut non si è mai trovato il responsabile di nulla”. E ancora non è un caso che rispetto al Libano riemerso a fatica dalla carneficina intestina e dalla doppia occupazione siriano-israeliana, Negri metta in risalto l’esistenza dell’altro Libano, quello Hezbollah, un vero Stato nello Stato, con un suo esercito, un’amministrazione parallela, ospedali, scuole, strutture economiche, sistema giudiziario, riscossione delle tasse…Viene alla mentequella definizione della scrittrice Nadia Hamamedh: “Appartengo a un Paese che commette suicidio ogni giorno, mentre viene assassinato”.

Uno dei capitoli più struggenti di Bazar Mediterraneo è quello dedicato ad Algeri, al suo sprofondare, alla fine degli anni Ottanta, in quello che nei vent’anni successivi sarebbe diventato consuetudine: terrorismo islamista, repressione militare di regime, interventi militari per circoscrivere se non estirpare il problema. Gli “anni di piombo” lì vissuti sono particolarmente emblematici perché l’Algeria aveva combattuto una guerra d’indipendenza e di liberazione tipicamente occidentale nel suo vedere insieme e sullo stesso piano donne e uomini, intellettuali e popolo, nella costruzione di una nazione laica e non confessionale, appunto sul modello francese, un socialismo nazionale e insieme modernizzatore, che dopo un ventennio di sforzi avrebbe riportato le lancette dell’orologio della storia al punto di partenza di un tribalismo identitario che mutuava il suo bellicismo proprio dai rituali sanguinosi della “guerra di liberazione”: sgozzamenti, mutilazioni, fosse comuni, attentati dinamitardi indiscriminati. Algeri, la casbah, Albert Camus e l’indignazione degli “intellò” parigini contro “la sporca guerra”, l’Oas e l’Algeria francese cara ai paracadutisti del fallito putsch, si stingono nel ricordo rispetto aciò che è avvenuto dopo. “Negli anni Novanta venivano uccisi giornalisti, intellettuali, scrittori, artisti, ingegneri, tecnici, operai, impiegati pubblici e chiunque potesse rappresentare un bersaglio. Il silenzio, dentro e fuori era infinito, la paura divorava l’Algeria, a porte chiuse, senza testimoni, sulla sponda sud del Mediterraneo”. Un’ immagine di Alberto Negri rende perfettamente quel clima: “Di giorno, camminando sulla Corniche del lungomare disegnato da Le Corbusier, vestito da algerino comune, con un giubbetto nero e una baguette di traverso nel tascapane (il simbolo ineludibile della battaglia per la vita quotidiana), tenevo lo sguardo fisso davanti per non incrociare quello altrui, ma ogni volto era sospetto perché la morte era pronta a sfiorarti”.

Se dalla costa meridionale del Mediterraneo ci si sposta lungo il versante adriatico che bagna i Balcani, non è che il panorama cambi di molto, non fosse che qui la tragedia è interna al Vecchio continente, non ha a che fare con colonialismi d’esportazione. Mai come nelle guerre balcaniche la formula del Novecento come “secolo breve” coniata dallo storico Eric Hobsbawn si è dimostrata sbagliata. Aveva ragione, osserva Negri, Milovan Gilas, l’antico sodale del Maresciallo Tito: “Qui stiamo brutalmente regolando i conti in sospeso della Seconda guerra mondiale”: massacri, pulizie etniche, migliaia di morti, milioni di profughi…

Gli unici porti di Bazar Mediterraneo che non odorino di morte e di devastazione, sono Alessandria d’Egitto e Tangeri, ma anche qui più che la memoria o la nostalgia della memoria, a prevalere è la decadenza e una sensazione di irrealtà. Nella prima, di ciò che è stato non resta pressoché nulla e la città “sta smarrendo persino i ricordi più recenti”. Nonostante lo sfarzo della nuova Biblioteca, “un disco volante di vetro, cemento e granito”, Alessandria è ormai “una metropoli del tutto egiziana, più rivolta verso il deserto che sul mare, con una periferia petrolchimica che la fa somigliare a Porto Marghera e una sana e sconsolante aria provinciale”. Quanto a Tangeri, resta quell’atmosfera indefinibile in cui l’europeo che l’assapora ha sempre una via d’uscita, visto che l’Europa resta a portata di mano, la si può quasi toccare: in fondo, Gibilterra è ad appena 14 miglia di mare… Come spiega a Negri lo scrittore tangerino Lofti Akalev, “i vostri intellettuali qui ci appaiono come una sorta di pesci volanti. Come se un pesce uscisse dal mare per visitare la terraferma, ma fosse sempre un pesce”.

Il capitolo finale di Bazar Mediterraneo è dedicato a Istanbul, che a lungo è stato metaforicamente l’estremo porto a Oriente di un possibile ancoraggio in Occidente. Qui, come in Algeria, la laicizzazione così fortemente voluta da Ataturk per guarire la Turchia dalla mortale malattia imperial-ottomana, è andata perdendosi fra colpi di Stato militari e nuovi fremiti fondamentalisti. In Piazza Taksim, scrive Negri, è passato “ogni tornante della storia turca”, fino al tentato golpe del 15 luglio 2016 che ha ulteriormente rafforzato il premier turco Erdogan. Di quest’ultimo, Negri ricorda un’affermazione del 1996, quando era ancora soltanto il sindaco di Istanbul: “La democrazia è come un tram. Quando raggiungi la fermata scendi”. Bisogna dire che è sceso da un pezzo.


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