Stenio Solinas

Da Venezia

Preparate i fazzoletti. Più che La luce sugli oceani, come da titolo tradotto in italiano, ieri in concorso c’è stata L’alluvione delle lacrime, destinata a trasformarsi in diluvio quando il film dilagherà nelle sale…Difficile mettere in scena un campionario maggiore di sfiga: un ex reduce dalle carneficine della Grande guerra che ormai alla vita non chiede altro se non un posto di guardiano di faro nella più sperduta delle isole australiane; una giovane fanciulla che se lo sposa anche perché stanca dei lutti in famiglia (due fratelli morti sul campo, padre e madre distrutti dal dolore); due aborti spontanei che frustrano il desiderio di maternità della neo-coppia; una barca alla deriva con dentro un neonato vivo e il corpo di suo padre morto; una madre che piange la scomparsa del marito e della bambina appena nata; agnizioni, arresti, processi, confessioni, dolore, espiazione…Per due ore e dieci minuti, pubblico e critica si ritrovano a sfregarsi gli occhi a ritmo industriale e però nemmeno per un secondo staccano lo sguardo dallo schermo. Il melodramma ha le sue ragioni che la ragione non conosce, oppure che conosce benissimo.

Tratto dall’omonimo best-seller di M. L. Stedman, The Light between Oceans, questo il titolo originale, di Derek Cianfrance, allinea per protagonisti Michael Fassbender e Alicia Vikander (premio Oscar quest’anno per The Danish Girl), ora coppia anche nella vita reale e quindi ancora più ambita qui al Festival per il combinato disposto di arte e pettegolezzo. E’ anche vero però che l’elemento primo del film è la selvaggia libertà della natura da un lato, il senso di claustrofobia e/o depressione che il suo eccesso può provocare se vissuta in solitudine. “Nel romanzo di Stedman ho trovato tutto quello che andavo cercando” dice il regista: “ In altri miei film, penso a Bule Valentine, a Come un tuono, mi ero appassionato a raccontare il groviglio dei sentimenti amorosi, un matrimonio che va a rotoli per piccoli rancori quotidiani, oppure una saga generazionale…. Qui però c’è molto di più, dal punto di vista individuale e epocale: c’è un faro, e quindi la luce, c’è un segreto da tenere nascosto, ma che porta in sé i germi del suo disvelamento, c’è l’isola come concetto geografico e insieme come metafora di una certa condizione umana, c’è un’epoca, gli anni fra le due guerre, moderna eppure ancora vittoriana…. Intorno a tutto questo ho cercato di raccontare la verità, l’accettazione del perdono, la capacità di porsi dei limiti”. Per certi versi, La luce sugli oceani è la storia di un dopoguerra dell’anima, la voglia di chiudere con ciò che è stato, ben sapendo però che il nostro passato ci presenta egualmente il conto e solo noi sappiamo qual è il giusto prezzo da pagare…

Uno dei pregi del film sta nell’evitare l’abusato cliché maschi carnefici, donne vittime sacrificali: Tom, il reduce dal carnaio della Prima guerra mondiale, ha una moralità e un senso di responsabilità che, come dice Fassbender, le generazioni di oggi non sanno nemmeno cosa sia, ma non è il solo a comportarsi con il giusto senso dell’onore. Quanto alle donne, il tema è come sottolinea Alicia Vikander, “quello della maternità, come dire acquisita, rispetto alla maternità naturale. Naturalmente, non sta a me dire quale sia la più giusta, credo però che il mio personaggio e quello di Rachel Weitz che le si contrappone, raccontino in maniera esemplare l’amore e il sacrificio che in suo nome si è disposti a compiere. E’ un film commovente”. Come darle torto?

 


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