CHI SI RICORDA ANCORA DI EUGENIO SCALFARI FONDATORE DE LA REPUBBLICA?

“Cappero scemo! Cappero scemo…” Urlavano i ragazzi….Nel 1976, quando Eugenio Scalfari fondò La Repubblica, aveva davanti a sé una florida prateria editoriale ben fortificata, ma a macchia di leopardo. L’unico quotidiano autenticamente nazionale, nonché organo del Pci, era L’Unità, con le sue sedi locali sparse per tutta la penisola, c’era poi Il Giorno a Milano, Paese sera a Roma, un po’ di quotidiani generalisti di provincia e tutta una pletora di giornali militanti della cosiddetta ultrasinistra, a cominciare dal Manifesto per finire a Servire il popolo. Due anni prima, nella più ristretta e spelacchiata prateria editoriale di destra, Indro Montanelli aveva fondato il Giornale, con l’obiettivo di dar voce a un mondo minoritario che voce non aveva. Intelligentemente Scalfari fece sul versante opposto la stessa scelta, un quotidiano-mondo in cui si potesse riconoscere tutto quel ceto medio progressista acculturato, un po’ a disagio con i giornali di partito, genericamente di sinistra, ma non necessariamente comunista, desideroso di vedere riconosciuto il suo ruolo di borghesia “illuminata” lì dove era tutto un tripudio di classe operaia, gioventù protestataria e lavoratori della Cgil.

Un quotidiano-mondo, non un quotidiano-partito, si badi bene. Scalfari era perfettamente a suo agio nel ruolo di consigliere del Principe, indipendentemente da chi fosse il Principe, quanto a disagio nello scegliere il Principe giusto e infatti le volte che scommise su un cavallo politico (il caso De Mita è l’esempio più clamoroso) regolarmente quel cavallo politico perse la corsa. Consigliere, del resto, vuol dire comandare per interposta persona, nonché concedere o negare i favori di un’opinione pubblica che nel quotidiano scalfariano credeva di vedersi riflessa come in uno specchio, accattivante e sprezzante, libertina e un po’ corsara, convinta di essere la parte sana di una nazione infetta. C’era molto del marchese del Grillo in Scalfari, così come nei suoi lettori, un processo di osmosi che ha pochi precedenti.

Finché Scalfari è rimasto alla guida del suo giornale, quel mondo, che era poi anche uno stile di vita e, se si vuole, un modello comportamentale, con i propri tic, i propri tabù, le proprie miserie e le proprie grandezze, gli è rimasto fedele, al punto che si poteva indovinare il lettore di Repubblica per come si presentava vestito all’edicola, il concentrato dello shabby chic…Lasciato lui il timone, quel mondo si è andato via via  appannando, così come andava appannandosi il suo specchio-giornale, e sempre più è subentrata la caricatura dell’uno come dell’altro. Venuta meno un’egemonia giornalistico-culturale, anche perché era andato intanto modificandosi radicalmente il campo sociale, economico e politico, tutto ha finito con l’assumere un sapore surreale, come quando in un palazzo signorile il maggiordomo si illude di sostituire il padrone di casa improvvisamente scomparso.

Fuori di metafora, di quel giornale-mondo sono rimasti sparsi frammenti, qualche volta ancora capaci di smaglianti beau geste, più spesso di sterili trombonismi e di interessasti equilibrismi.

Eppure, fino a che è durato, quel lettore-mondo di Repubblica è stato un po’ la cartina di tornasole di cosa si dovesse leggere e di cosa si dovesse vedere al cinema, quali trasmissioni scegliere in tv, quale opinione corretta indossare nei salotti o nelle piazze, persino dove andare in vacanza,  un concettato di conformismo maggioritario travestito da élite alternativa…Un universo a sé stante che bacchettava l’altra Italia lazzarona e nullafacente, maschilista e retrograda. E poco importa se poi i suoi abitanti, tornati a casa, si mettessero le dita nel naso e dessero della serva alla colf filippina. Leggere la Repubblica li rendeva comunque mondi dal peccato mortale di essere italiani alle vongole. Erano e restavano gli antitaliani, come da insegnamento scalfariano. Ovvero vongolari anche loro, ma con la puzza al naso e il mignolo alzato.


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